Torino, 22 febbraio 2019 (LaPresse) – “Beatissimo Padre, io, Carlo Donat-Cattin, deputato al Parlamento per la circoscrizione di Torino-Novara-Vercelli, sono venuto a sapere nello scorso agosto che, per una disposizione comunicata dal Sant’Uffizio non dovevo essere invitato a parlare in riunioni delle Acli e di organizzazioni cattoliche…”. La lettera, scritta a mano il 24 gennaio 1963 e inviata a Papa Giovanni XXIII, è uno dei documenti più importanti che emergono in questi giorni dall’archivio dello statista democristiano di cui il 14 marzo a Roma, al Senato, si svolgeranno le celebrazioni del centenario della nascita (il 26 giugno 1919 a Finale Ligure, Savona), con un saluto di apertura dei lavori della presidente di Palazzo Madama, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Nel testo, l’allora deputato torinese della Democrazia Cristiana si rivolge Giuseppe Angelo Roncalli, il “Papa buono” del Concilio Vaticano II, proclamato santo da Papa Francesco nel 2014. In quel periodo, Carlo Donat-Cattin sta partecipando da protagonista all’acceso e contrastato dibattito politico che divide la Dc sulla definitiva alleanza con il Psi nell’esperienza del primo centrosinistra. Le sue posizioni sono sempre più vicine a quelle di Aldo Moro che, nel dicembre di quello stesso anno, lo chiamerà a far parte del suo primo governo come sottosegretario al ministero delle Partecipazioni Statali. Il futuro “ministro dei lavoratori” dell’Autunno Caldo e dello Statuto dei lavoratori sta subentrando, sempre in quell’epoca, a Giulio Pastore (che era stato uno dei suoi maestri nell’impegno sindacale degli Anni 50 nella Cisl) alla guida della corrente della sinistra sociale dc “Forze Sociali”, che poi assumerà la denominazione definitiva di “Forze Nuove”, fortemente impegnata nella difesa delle classi più deboli in nome della dottrina sociale cattolica. La “disposizione del Santo Ufficio”, a cui fa riferimento Donat-Cattin nella sua lettera, sembra dunque riconducibile proprio allo scontro in atto in quel momento nella Chiesa italiana e nell’associazionismo cattolico riguardo alle scelte politiche della Democrazia Cristiana. (1, segue)
Torino, 22 febbraio 2019 (LaPresse) – Nella lettera, Donat-Cattin rivendica subito il suo impegno e lo oppone, come prova di fedeltà agli insegnamenti ecclesiali, alle critiche e alle valutazioni di chi sembra aver avuto l’intenzione di punirlo ed escluderlo dalla sua partecipazione alla vita delle associazioni cattoliche. “Credo – scrive infatti al Papa – che nelle mie intenzioni, svolgendo azione politica e sindacale, io abbia agito in modo da non venir meno agli insegnamenti di dottrina e di morale che dalla Chiesa ho ricevuto ed ai quali intendo attenermi”. Rileggendo oggi la minuta di quella missiva, conservata nell’archivio della Fondazione Carlo Donat-Cattin di Torino, emerge il tratto di autenticità e di immediatezza che sarà poi sempre una caratteristica del suo agire politico, per nulla mitigato dall’eccezionalità di una lettera scritta a un Papa, il capo mondiale della cristianità, allora ancora circondato da un’aura di venerazione e di separatezza dalle cose più terrene che solo la svolta impressa dallo stesso Papa Roncalli, e poi dal Vaticano II da lui voluto, farà venir meno nei decenni successivi. Infatti, se nel congedo finale Donat-Cattin rispetta i “codici” secondo i quali un credente impegnato si rivolgeva allora a un pontefice (“…Con profonda venerazione ed affetto, prostrato al bacio del Sacro Piede, chiedo la apostolica Benedizione professandomi di Vostra Santità devotissimo figlio”), nella parte centrale usa invece un tono diretto e immediato: “…Chiedo pertanto umilmente a Vostra Santità di volere intervenire perché mi siano esposti i motivi della disposizione e perché possa riacquistare la necessaria serenità nello svolgimento della mia azione…”, dopo non aver risparmiato alla stessa gerarchia cattolica una critica per il silenzio opposto alle sue richieste di spiegazioni: “…Ho seguito il consiglio dell’assistente centrale delle Acli, monsignor Santo Quadri, ed ho atteso che mi venissero chiariti i motivi della disposizione al fine di potermi eventualmente correggere, ma fino ad oggi nessun chiarimento ho potuto conoscere, avendo anche parlato della cosa col vescovo coadiutore di Torino, S.E. mons. Tinivella…”. (2, segue)
Torino, 22 febbraio 2019 (LaPresse) – L’amarezza di Donat-Cattin nella lettera a Giovanni XXIII trova le sue ragioni, oltre che nelle vicende politiche di quei giorni, nella sua storia personale e familiare di cattolico impegnato nella realtà sociale e politica. Il padre Attilio, infatti, che aveva partecipato alla fondazione del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, durante la Seconda Mondiale era stato internato in Germania. Lo stesso Carlo Donat-Cattin, durante la Resistenza, aveva fatto parte per la Democrazia Cristiana appena nata del Cln di Ivrea e, dopo la Liberazione, aveva proseguito il suo impegno come giornalista nel giornale della Dc “Il Popolo” e in altri quotidiani cattolici come “L’Italia” e “L’Avvenire d’Italia” e, in seguito, come sindacalista prima delle Acli e poi della Cisl, per approdare infine alla politica locale e poi nazionale nella Democrazia Cristiana. Un partito nel quale, sin dall’inizio, le posizioni della “sinistra sociale” di Donat-Cattin lo avevano messo in contrasto con quelle più conservatrici all’interno della Dc, come testimoniato dai suoi scontri politici con Amintore Fanfani. Un atteggiamento che trova ulteriore conferma in un breve messaggio, non datato e scritto a matita su un foglio volante (risalente agli Anni 50), anch’esso conservato nell’archivo della Fondazione Carlo Donat-Cattin, nella sede del Polo del ‘900 di Torino. Chi scrive, al futuro leader di “Forze Nuove”, è un altro esponente piemontese della Dc di allora, il biellese Giuseppe Pella (presidente del Consiglio tra il 1953 e il 1954). Il tono è scherzoso, ma manifesta anche un dissenso netto: “Guai se la Provvidenza, anziché chiamarsi De Gasperi, si chiamasse Donat-Cattin”. (3. fine)