Giorgio Aimetti
Carlo Donat-Cattin
La vita e le idee di un democristiano scomodo
Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2021
540 pp.
Ean 9788849868777
Giorgio Aimetti
Carlo Donat-Cattin
La vita e le idee di un democristiano scomodo
Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2021
540 pp.
Ean 9788849868777
Dopo gli anni del “baby boom”, esperti del settore avevano lanciato allarmi su allarmi, si erano avviate ottuse politiche demografiche. Ma già prima degli anni Ottanta la situazione era drammaticamente cambiata: il Paese era invecchiato, la natalità era diventata tra le più basse del mondo, gli abitanti tra i più vecchi.
Nel 1986, a Saint-Vincent, Donat-Cattin diceva: «Quello che l’Italia ha dato alla storia del mondo non può farci trovare cancellati, di modo che di qui a due o trecento anni la gente, i ragazzi che vanno a scuola ascolterebbero: “Ecco, c’erano i Sumeri nella pianura del Tigri e dell’Eufrate e c’erano gli Italiani tra gli Appennini e le Alpi”. E lo dico con tutta l’anima anche a tanti che sono qui: è meglio avere figli, anche se ti fanno sanguinare il cuore. Perché questa è la vita, questo il contributo nel sacrificio, nell’amore, nella pena e nella gioia di vivere, che offre la continuità che dobbiamo dare al mondo, ai doni che da Dio abbiamo ricevuto»
Forlani quell’anno era al convegno di Forze nuove e a decenni di distanza si sarebbe ancora commosso ricordando quella frase che rinnovava il dolore di Donat-Cattin per la vicenda del figlio Marco [protagonista del terrorismo degli anni ’70]. Flaminio Piccoli, il democristiano che aveva combattuto qualche volta insieme, ma il più delle volte contro il leader di Forze nuove è mancato da qualche anno. Anch’egli quel giorno era sul palco di Saint-Vincent e alternativamente batteva le mani e si asciugava gli occhi umidi. […]
La predica laica di Donat-Cattin gli sarebbe costata la censura dagli oppositori: non sarebbe mancato chi lo avrebbe indicato come nostalgico di politiche demografiche di indirizzo fascista.
[…] Gli si era parata dinnanzi l’immagine di un Paese ormai chiuso in sé stesso e nelle sue paure, privo di vitalità, un popolo destinato al declino e all’invecchiamento di età e di pensiero. Aveva compreso gli straordinari confini del prossimo futuro, con lo scontro fra popolazioni giovani e la vecchia Europa. Capiva la paura che c’era verso chi sarebbe arrivato (fossero i figli, fossero gli immigrati d’oltremare). Ma vedeva nell’Italia un Paese “in scadenza”, destinato a far contare 30 milioni di abitanti entro il 2050, sempre che non venissero dall’estero nuovi italiani destinati a integrare i vuoti nelle fabbriche, nell’agricoltura, negli ospedali, nell’assistenza al cittadino.
[…] Il 5 luglio 1988, alla Camera, rispondendo alle mozioni su biogenetica ed aborto, Donat-Cattin si scontrava con durezza con i parlamentari dell’opposizione, tra i quali Violante e Rodotà: «Le persone che ci giudicano per aver ricordato il valore della presenza del popolo italiano nella storia, della sua etnia e della sua civilizzazione, sono le stesse che si agitano molto per la probabile scomparsa di minoranze etniche, dagli occitani agli abitanti della valle di Gressoney, dagli sloveni della valle dell’Isonzo e del Natisone ai greco albanesi». E poco dopo: «È possibile che non si possa dedicare – senza sentire insultanti paragoni fatti da persone che non so se avevano ancora il biberon in bocca quando noi ci battevamo contro i nazifascisti – un pensiero doveroso dal punto di vista dello Stato e della Repubblica verso l’avvenire anche demografico del Paese?». […] «Non è per ragioni di potenza che noi facciamo presenti i pericoli derivanti dal degrado demografico; non abbiamo nessuna intenzione di far crescere la popolazione italiana per disporre di “otto milioni di baionette”: vogliamo soltanto difendere ed avviare una politica materno infantile volta a mantenere una presenza nel mondo della civilizzazione italiana. Sappiamo […] che negli spazi vuoti si proiettano non soltanto persone provenienti da mondi colmi di fame (che devono essere in qualche modo accolte), ma anche problemi di convivenza che, nella misura in cui sono graduati, possono essere risolti, mentre, se sono violentemente imposti, presentano maggiori difficoltà di soluzione».
Per comprendere l’inciso di quella affermazione (“che devono essere in qualche modo accolte”) bisogna andare a quanto aveva detto il 4 aprile di quell’anno al Senato durante il dibattito sulla situazione sanitaria dell’immigrazione. Allora aveva già spiegato come intendeva affrontare il tema: la voce che dall’estero venissero portate malattie nuove e pericolose circolava già su alcuni media. Erano affermazioni non controllate, che creavano allarme, ma alla base c’era la necessità di garantire a tutti (anche ai nuovi venuti) un’assistenza sanitaria che avrebbe anche consentito di controllare il fenomeno dell’immigrazione in corso. […] Diceva Donat-Cattin: «Ho presentato in Consiglio dei ministri un disegno di legge non soltanto per estendere, come è stato chiesto qui da qualcuno, il diritto all’assistenza ostetrica alle donne di colore provenienti dal terzo mondo […] ma anche per estendere a tutti gli immigrati, clandestini e non, l’assistenza prestata dal servizio sanitario nazionale. L’obiezione in ragione della quale tale assistenza non è stata ancora attivata è che costerebbe 400 miliardi di lire. Per me questa non è un’obiezione valida, perché l’assistenza è dovuta a qualsiasi uomo o donna si presenti nel nostro territorio in condizione precarie di salute».