Giorgio Aimetti
Carlo Donat-Cattin
La vita e le idee di un democristiano scomodo
Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2021
540 pp.
Ean 9788849868777
Giorgio Aimetti
Carlo Donat-Cattin
La vita e le idee di un democristiano scomodo
Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2021
540 pp.
Ean 9788849868777
La tragica fine di Aldo Moro spacca in due la storia della prima Repubblica. Ogni politico ne ha descritto la parte grande o piccola che ebbe nella circostanza. Molti ricordano ancora oggi la reazione dei personaggi più in vista dell’epoca. I democristiani, anche i dirigenti di livello inferiore, sanno dire esattamente dove, come e quando avevano appreso del sequestro e della fine del loro leader.
Su Donat-Cattin avevo raccolto questa significativa testimonianza di Arnaldo Forlani.
«Il mattino in cui rapirono Moro, Donat-Cattin, come molti altri si precipitò a palazzo Chigi. Ci trovammo, una ventina di persone tra lo sconcerto generale nella stanza di Andreotti. C’erano Berlinguer, Gian Carlo Pajetta, ministri, il capo della polizia. Lui nella confusione generale disse alcune cose di una lucidità e di una saggezza spaventosa. Disse subito che lo avrebbero ucciso. Legava l’ineluttabilità dell’uccisione di Moro al fatto che avevano ammazzato tutti i componenti della scorta. Nella psicologia dei terroristi c’era un’assoluta impossibilità di figurare verso la loro base come assassini di poliziotti-lavoratori e, allo stesso tempo, come coloro che liberavano Moro. Poi disse ancora che sarebbe stata una storia lunga. Aggiunse: “Prepariamoci. Gli faranno scrivere lettere, messaggi, le cose più incredibili”». […] Scriveva Donat-Cattin dopo la scomparsa dello statista barese: «Sapere della sua morte è stato duro e, dopo, continuo a sentire gelo e solitudine nella nebbia che opprime il cuore». […]
Due uomini che erano stati molto vicini e tanto differenti tra loro. Concreto e intemperante l’uno; riflessivo, quasi curiale, portato a fare della politica più un’arte del pensiero che quella del realizzare, l’altro. Pronto alla battuta e al commento, alla maniera dei giornalisti di razza, il primo; avaro di dichiarazioni, di giudizi, prudente e riservato l’altro.
Donat-Cattin fulminava l’avversario con una frase (e delle sue battute, tante vengono raccontate ancor oggi perché sono entrate nel linguaggio politico), Moro lo sfiniva con argomentazioni complesse e molto lunghe: il suo discorso congressuale a Milano era durato sei ore. Quello di Donat-Cattin a Firenze, pochi minuti (ma la sua denuncia contro i franchi tiratori resta ancora impressa in coloro che l’avevano sentita e viene ancora ricordata dai protagonisti di tante vicende politiche) […]. Moro parlava raramente, ma le sue riflessioni articolate e minuziose sembravano quasi fatte per spiegare tutto. Eppure, da vivo e da morto è stato assai variamente interpretato e più volte incompreso. Donat-Cattin aveva un rapporto con la comunicazione assai diverso. Scrivere o discutere era un modo di vivere la politica: a tanti anni di distanza dal primo libro che ho scritto su di lui ancora non ho letto che una parte dei suoi articoli e forse neppure li ho rintracciati tutti.
[…]
I due, per una sorta di convergenza che avvicinava gli opposti, si erano scontrati più volte dal 1959 in poi, ma non erano mai giunti a conflitti personali che avrebbero potuto impedirne la reciproca comprensione. Lo ammetteva lo stesso Donat-Cattin: era Moro che si sforzava maggiormente di capire l’irruenza del suo interlocutore. Questi finiva poi per accettare la buona disposizione dell’altro, la sua attenzione ai ragionamenti proposti e ad ammirarne la pazienza e soprattutto l’intelligenza.
Lo avrebbe voluto presidente della Repubblica, ne fu un collaboratore, prima da sottosegretario, poi da ministro. Ne avrebbe assecondato i disegni politici per salvare la collaborazione con i socialisti. Nel 1968 si sarebbe trovato unito a lui nella battaglia interna al partito per contrastare i disegni di restaurazione prima di Piccoli e poi di Forlani.
Nella democrazia televisiva, Donat-Cattin avrebbe avuto un suo ruolo, come lo hanno avuto Giulio Andreotti e Francesco Cossiga. Moro, serio e ponderato, sarebbe apparso povero di quel glamour necessario per fronteggiare il Maurizio Costanzo Show, le risse di Santoro e le riprese in streaming.
[…]
Donat-Cattin negli anni Settanta sapeva che le sorti della Dc e del paese erano legate all’opera di mediazione svolta da Moro. Questi affermava che la Dc non sarebbe stata più la stessa quando la componente sindacale democristiana, alla quale Donat-Cattin si ostinava a dar voce (talvolta persino contro la volontà dei vertici della Cisl), fosse diventata estranea al partito. […]
Forlani ricostruisce così il momento chiave del periodo della solidarietà nazionale: «Quando Moro ebbe la sensazione di incontrare difficoltà nel partito, si preoccupò di chiarire bene. Ad un chiarimento anche con Donat-Cattin partecipai anch’io. E in realtà lui rassicurò molto. Nel senso che non vedeva questo come un preludio e una preparazione dell’ingresso dei comunisti nel governo. Anzi, ricordo anche una frase: non avrebbe mai accettato “se una cosa di questo genere venisse proposta senza che intervengano prima cambiamenti epocali”». […]
Scalfari, a quel tempo direttore di Repubblica, affermava che Moro, in un colloquio avvenuto pochi giorni prima del sequestro, gli avrebbe esplicitamente indicato l’incontro di governo con il Pci come evoluzione finale della fase politica. La maggior parte dei commentatori di parte democristiana (da Bodrato agli altri studiosi di quel periodo) tendono a smentire quell’interpretazione. […]
Diceva Donat-Cattin: «Può darsi che fino a un’ora prima del suo ultimo discorso, volesse farne uno diverso, più o meno sulla falsariga indicata da Scalfari. Però non è accaduto. Ha fatto quel discorso; è la sua scelta definitiva, formale, ufficiale, a quel punto, di quella vicenda». […]
I passi della tragedia ripercorrevano una per una le previsioni di Donat-Cattin: lettere, accuse ai compagni di partito. La tragica fine. Donat-Cattin non credeva alla manipolazione dei messaggi: «Perché potrei segnare uno per uno le decine e decine di giudizi, di modi di dire, di espressioni che ho udito – in contesti diversi, in situazioni diverse – dalla sua bocca, in piena libertà, in quella maggiore libertà che è offerta da una conversazione d’amicizia». […]
Sugli obiettivi della Br aggiungeva: «L’esecuzione di Moro è stata consumata per creare maggiori divisioni, per indebolire la democrazia italiana. Il risultato è stato raggiunto […]. La logica Br non vuole la Dc, non vuole neppure il Pci, con la Dc e senza la Dc».
[Un parere di agghiacciante preveggenza].