È l’età vostra
Lezione magistrale ai giovani
di Sergio Zavoli
Saint Vincent 12 novembre 2010
Vi ringrazio e vi esonero dal continuare a battere le mani perché è giusto che prima voi ascoltiate e giudicate e stabiliate se veramente ne vale la pena.
Dico questo perché mi piace stabilire da subito con voi un rapporto che deve esserci reciprocamente, se lo permettete, familiare. Io fingo di essere a casa mia o a casa vostra di modo che tra voi e me non c’è quella distanza che è data prima di tutto dagli anni, un abisso di anni ci divide, per quanto abbia il sensorio vigile come dicono i bollettini medici non posso nascondere che alla mia età per bene che vada andrà sempre un po’ peggio quindi tutte le volte che prendo la parola o mi esercito in qualche iniziativa corro il rischio di deludere qualcuno.
Questa volta però io mi sono fidato persino di me stesso
Nel senso che al richiamo di Claudio Donat-Cattin che è stato un collaboratore attentissimo, fiducioso e affidabilissimo di tanti anni che trovano qui qualche spezzone raccolto un po’ alla rinfusa tanto per dare una qualche idea del nostro lavoro di quegli anni ho sentito subito di dover dire di sì. Che cosa mi ha fatto rischiare così tanto, perché sono qui a parlarvi di cose tutto sommato difficili? Qui a tenere una conferenza e non un comizio, nonostante io sia un uomo di parte e quindi tentato anche di essere fazioso. Ma io non voglio affatto fare un comizio, né voglio essere un uomo di parte, voglio essere semplicemente una persona che ha attraversato la storia del nostro paese ricavandone esperienze che penso di poter mettere a disposizione di qualche ragazzo che ancora deve trovarsi di fronte a ciò che la storia gli metterà davanti a partire da oggi e chissà fino a quando, fino al giorno in cui voi sarete nella condizione di dire chi siete e che cosa volete.
Ai tempi miei a scuola, io ricordo benissimo i versi di Eugenio Montale credo anche di poterli ripetere a memoria: Codesto solo posso dire ciò che non siamo ciò che non vogliamo”, ma era del tutto naturale che a quei tempi essendoci il regime e quindi mettendo in gioco addirittura la libertà quando ci si esprimeva intorno ai propri pensieri, ai propri ideali, che si dicesse no, io so quello che non posso dire e quello che non posso fare. Ma oggi voi ragazzi vivete in un regime di libertà, siete in democrazia. Per quanto questa Italia, questa politica, tante cose che vi circondano possano non piacervi, nondimeno è indiscutibile che questa è ancora una democrazia che avete ricevuto senza pagare grandi prezzi.
Avete ricevuto la democrazia oserei dire nel salotto di casa, con la televisione che già vi dava conto delle cose del mondo, e già avvezzi ad un certo benessere, con tutta una serie di privilegi che la mia generazione non ha conosciuto.
Noi siamo nati per così dire in divisa. Io ricordo le nostre divise da Balilla, da Avanguardisti, di Giovani fascisti, e le ragazze le Piccole italiane, Giovani italiane con le loro camicette bianche e il nero della cravatta e della gonna, così aggraziate e pulite mentre noi eravamo molto inclini, in ciò favoriti anche dalle ribalderie del clima che ci circondava, alle provocazioni e ai lazzi. E tuttavia quanti amori sono nati nei sabati fascisti quando tutti in divisa i ragazzi di allora si radunavano nelle piazze d’Italia per dare vita a questi saggi ginnici, a questa premilitare, a queste prove di appartenenza ad un sistema che ci vedeva tutti insieme, felici di onorare la patria, fieri di una divisa che ci pungeva le gambe, ricordo, perché era fatta di stoffe che oggi noi non useremmo neppure per coprire la schiena di un somaro. E nondimeno si cantava, si inneggiava. Io ricordo cose strepitose come il canto Dio ti manda all’Italia come manda la luce, duce, duce, duce. Ed era del tutto naturale che si dicesse una cosa così spropositata.
Io ricordo le nostre madri e le nostre sorelle che dai balconi ci vedevano sfilare mentre cantavamo delle canzoni che erano al limite, dico la verità, dell’osceno, ma era la maschia gioventù del regime che passava e non nascondo che persino nelle nostre mitissime madri, avvezze ad andare alla messa e alle nostre sorelle cresciute nella timidezza, nel riserbo, nel nascondimento, ecc., rimanere sbalordite dalla protervia, dalla ribalderia e anche dalla sconvenienza di questi ragazzi che profittando di questa divisa e di questi moschetti finti che ci mettevano sulle spalle, attraversavano le città come si attraversa la storia. Eravamo convinti anzi di essere la storia, di rappresentarla. Non potevamo che essere la storia dal momento che il paese ci metteva in condizioni di esprimere se stesso in quella maniera così esplicita e così riconosciuta anche all’estero, in cui si diceva l’Italia sta producendo un grande sforzo per diventare una nazione e purtroppo, si aggiungeva, che questo non sia a scapito della libertà.
Ora non si poteva essere quella cosa escludendo l’altra, non si poteva pensare di potere godere della libertà nello stesso momento in cui tutti gli atti della tua vita dall’inizio alla fine della giornata, dall’inizio alla fine dell’anno erano completamente, minuziosamente, fiscalmente regolati da tutta una serie di riti, di cadenze, di abitudini, di ordini che venivano dall’alto.
Io ricordo che persino la vita interiore era regolata da certe obbedienze che dovevano tenere in vita il buon rapporto tra il regime fascista e la chiesa. Il concordato con la chiesa cattolica era stata una grandissima trovata di Mussolini il quale aveva così tacitato una certe turbolenza che il fascismo aveva generato all’interno della società anche attraverso il dissidio tra i credenti e i non credenti. Quella pacificazione aveva in qualche modo risolto il problema e a no spettava di testimoniare la raggiunta pacificazione. Io abitavo a Rimini una città già allora segnata da una sorta di destino che era quella di dover diventare a tutti i costi la capitale del divertimento, quindi figuriamoci quanto profana e quanto lontana da quanto sto per raccontarvi eppure la domenica pomeriggio alle 5 si andava puntuali a questo rito pomeridiano, non so dirvi se quel rito è rimasto o è stato abolito, ricordo benissimo che si andava a quella stipatissima funzione pomeridiana spinti non da un empito spirituale ma dal fatto che il partecipare a quella benedizione dava diritto di ricevere una marchina con la quale si poteva accedere ad una saletta parrocchiale e assistere gratuitamente alla proiezione di un film, quindi non era una grande santità quella che ci portava in chiesa.
Eppure io ricordo che un giorno fossero i sussurri che venivano dai confessionali, forse l’odore acre delle candele, forse ancora di più l’odore stordente dell’incenso, ma più di tutto fosse lo spettacolo dei volti che risalivano come rimessi in pace dall’introduzione del Cristo, cioè dall’aver ricevuto la comunione, sta di fatto che mi venne come la tentazione di avere la fede. Allora feci precipitosamente il conto di quanto tutto ciò mi sarebbe costato. Rimini era una vacanza che non finiva mai e che cominciava a maggio e finiva ad ottobre, la scoperta del corpo, dell’amore, le prime gioie dello spirito e della carne, insomma tutto questo mi pareva un patrimonio così legato ai diritti se non proprio ai privilegi della mia età che rinunciarvi mi pareva una prova a cui non potevo e non dovevo sottomettermi. Allora decisi di rivolgere una preghiera a nostro Signore e convinto che il credere dovesse corrispondere alla santità e viceversa lo pregai in un modo un po’ goffo di non darmi la fede. Il resto della mia vita dirà che non sono stato esaudito e lo considero tutto sommato un privilegio, anche se a tutti coloro che continuano a chiedermi se io credo io continuo a rispondere che io credo di credere che però mi sembra già un modo di avvicinarsi alla fede anche perché si potrebbe sostenere che chi cerca in un certo senso ha già trovato.
Vi dico queste cose un po’ disordinatamente richiamandomi ai momenti dell’età di allora e delle abitudini di allora per dirvi come siano distanti le due epoche, la mia generazione e la vostra, e come sia difficile colmare una distanza così grande che è riempita da eventi immani.
Io ricordo per l’appunto che noi si viveva come dentro una divisa e ricordo anche come quando con la primissima maturità ci rendemmo conto che dentro quella divisa c’erano degli esseri umani in carne ed ossa.
Quanti amori sono nati tra i ragazzi e le ragazze in divisa. Quante morti sono finite dentro queste divise nell’Africa settentrionale, in Russia, in tutti i fronti dissennati aperti dalla guerra?
Questo dico perché non passa un tempo in cui per combattere una guerra forsennata si devono perdere 52 milioni di creature umane, senza che questo generi una totale rivoluzione anche del modo di essere e di sentire dell’umanità non è possibile superare una tragedia di questo tipo senza che questo lasci un segno che dura nelle generazioni.
Io sarei molto curioso di sapere che cosa vi è rimasto di quel tempo, di quella guerra dissennata che aveva travolto tutti i veri ideali da parte del nostro paese gli ideali del Risorgimento che volevano dire di darsi una patria che corrispondesse alla nostra storia, alla nostra gente nel senso virgiliano del termine, ai nostri ideali, alla nostra cultura, al nostro linguaggio, ai nostri poeti, al nostro modo di pensare, di immaginare, di stupirsi, di innamorarsi e perché no di soffrire, di piangere, di disperarsi.
Voglio dire che c’è un’antropologia che trasforma completamente le generazioni eppure io oggi sono qui con voi e nonostante sia trascorso tutto questo mi sembra tutto sommato di avere davanti a me un bel gruppo di giovani con i quali sento di poter condividere quanto meno la mia sincerità. Lungi da qualunque ipocrisia e figuriamoci da qualunque slealtà, che sarebbe veramente ignobile che io portassi in mezzo a voi che avete bisogno invece di parole franche e trasparenti, perché questo si vuole che sia il tempo dell’immagine, di ciò che si può mettere sotto gli occhi, non più come un tempo quando le notizie venivano da lontano come i velieri, adesso noi siamo testimoni e protagonisti nello stesso tempo del medesimo evento e per questo crediamo di essere tutti un po’ più uguali, resi più uguali da questo che il sociologo del mio mestiere, l’abusato McLuhan ha chiamato il villaggio globale. Io credo che ci sia stata raccontata una delle più grandi menzogne di questo secolo. Il villaggio non è affatto globale nell’epoca nata dai lumi cioè dalla grande rivoluzione culturale del ‘700 a tutt’oggi c’è un miliardo di persone che non conoscono la luce elettrica. Nel tempo della trasparenza, della globalizzazione, della ridistribuzione delle opportunità, ogni giorno che dio manda sulla terra ci sono 30.000 bambini che muoiono tutte le sere di fame, di inedia, di malattia.
Ora ditemi se non avremmo motivo di celebrare tutte le sere una sorta di lutto universale, ma questo non succede, non perché siamo particolarmente cinici, indifferenti, svagati, disinteressati, è semplicemente perché non ci viene detto.
E come può esser vero mi direte che non ci venga detta una cosa così importante nell’età in cui tutto ci viene detto, perché è l’età della comunicazione.
Non ci viene detto perché i poteri che si costituiscono dopo ogni epoca, ogni ciclo storico, più o meno in silenzio convengono sulla necessità di tenere lontane le notizie che possono ricreare le condizioni della separazione, della divisione, dello scontento.
Dentro questo conformismo così antistorico e così contrario ai destini dell’umanità si seguita a perseguire questa abitudine del silenzio, del nascondimento, della menzogna. In realtà i bambini continuano a morire di fame e noi la sera pensiamo che tutti i nostri problemi debbano invece dipendere da tutt’altro: da quello che dice Santoro, da quello che dice Vespa, da quello che accade in quale luogo del gossip e della prurigine o in quale sito si possono cogliere tutti gli esempi della trasgressione più o meno giovanile e quella grande malaugurata rassegna della cronaca nera che ci racconta ogni giorno di un tempo in cui pare non vi sia altro da fare che dare un esempio dell’uomo che lo descrive come una specie di belva, anziché ricreare le condizioni per convenire che tutto sommato l’uomo ha per destino la sua capacità di resistere al male. Perché se questo non fosse vero, se la natura stessa dell’uomo non obbedisse a questa legge ostinata della natura, dopo 55.000 generazioni quante volte l’umanità avrebbe avuto occasione di distruggersi. Eppure questo non è successo. Ogni modernità ha portato con sé un motivo per il quale l’umanità di quel tempo poteva soccombere eppure di modernità in modernità siamo arrivati sulla luna, ci prepariamo addirittura a sbarcare su Marte. E questo significa che c’è una specie di destino contro il quale sarebbe vano osteggiare questo disegno, perché tanto vincerà la bontà dell’uomo, e se questo non fosse vero non saremmo arrivati al tempo in cui siamo arrivati. Di occasioni per farci del male ne abbiamo avute, pensate soltanto se il disegno di Hitler di usare la bomba atomica che era sul punto di essere create dall’equipe di Von Braun che cosa sarebbe successo del mondo. Noi non possiamo valutare che cosa abbiamo evitato, sappiamo e già ci avanza tutto quello che ci è successo e che possiamo documentare. Allora creare nei giovani la coscienza del pericolo trascorso non deve significare soltanto rammentare che la storia è capace di riprodurre le cose infami che ha dovuto conoscere, perché sarebbe sempre disporli un poco al pessimismo, ma dare loro la certezza che dai grandi guasti dell’uomo l’uomo stesso è in grado di uscire a una condizione però di volerci essere, di starci, di volerne sapere, di non dire la cosa non mi interessa, di prendersela per esempio con la politica senza dire che la politica è sempre più necessaria quanto più essa stessa sembra autorizzarci a voltarle le spalle. Questa politica molto spesso non ci piace, siamo molto scontenti di come vanno le cose nel nostro paese, eppure non si può immaginare una soluzione che non attraversi la politica, non c’è una palingenesi che avviene da sé e che rimette in sesto le cose di una società che non passi attraverso la politica che è come lo strumento ordinatorio delle controversie e del modo di risolverle. I partiti certo è vero a noi sembrava un’enormità il pentapartito, 5 partiti dicevamo non sono un po’ troppi, sarà perché venivamo da uno solo e 5 ci sembravano la fine del mondo, in realtà oggi sono più di 50 comprese le piccole formazioni. Allora c’è una degenerazione. Ci sono proprio dei cicli della storia che portano a dover dire ecco qui abbiamo toccato un punto oltre il quale è pericoloso andare. E allora bisogna avere il coraggio di fermarsi, di guardare indietro e trarre delle lezioni da quello che abbiamo già attraversato e conosciuto e cominciare da capo.
Vi dico subito come, un’idea che mi è venuta e che vi dirò anche per alleggerire un po’ il discorso, per darvi delle immagini che non siano così tremolanti come queste. Quel processo iniziale alla tappa si svolge sotto una grande nevicata si capisce sì e no, ma sembra la telefoto di un disastro, non si vedono quasi le figure. Ecco io vi ho portato un documento che ho filmato nel 1966 quindi molto lontano da quel 1945 in cui finì la seconda grande guerra, che finì con questo tentativo di riappacificare la società italiana intorno ad un valore ricostituito che era l’unità del paese. Perché oggi siamo così inquieti quando pare che si voglia mettere in dubbio l’unità del paese? Perché noi soltanto allora avemmo deciso che bisognava rimettersi insieme, che la forza di una società è quella di essere uniti, che comunità vuol dire mettere in comune, che da soli non si fa la vita se non quella di un sonnambulo, che io solo sono la metà e che quell’altro è la mia parte che non ho più e di cui devo in qualche modo riappropriarmi, per diventare una creatura intera. Ecco questo senso della riappropriazione del criterio dello stare insieme … questo è un secolo in cui o staremo insieme o ci perderemo in un modo credo irreparabile perché i pericoli crescono anche in proporzione alla capacità di distruggere le cose buone. Io voglio essere molto franco: sono convinto che si cresce anche in virtù dei problemi che siamo costretti a risolvere, quindi non ci dobbiamo allarmare oltre una certa misura di quello che succede, però dobbiamo prenderne atto ed esserne consapevoli. Non possiamo dire che tutto va bene perché non è vero. tutto va piuttosto male, ma già saperlo è un modo di cavarsela. La conoscenza diceva San Benedetto è il principio dell’amore. Io mi limito a dire una cosa più laica e cioè che conoscere è la prima possibilità di farcela, chi non conosce non può né scegliere né rifiutare. Noi dobbiamo metterci in condizione di sapere per conoscere, conoscere per capire, capire per scegliere. Questa è la grande questione che vi riguarda ragazzi. Non sono qui per farvi la predica, ma proprio per dirvi guardatevi intorno e decidete che siete nell’età vostra, e l’età vostra è quella della scelta, è quella di dire ci sono e ci voglio essere.
Vi racconterò a questo proposito una piccola parabola: mancava un mese alla fine del secondo conflitto mondiale. La 5° Armata aveva già rotto la linea difensiva gotica su Bologna e la Wermacht si preparava a retrocedere nella pianura padana per raggiungere le Alpi e quindi calare verso le proprie città a difesa di questo ritorno, di questa fuga della grande macchina di Hitler, erano rimaste delle pattuglie naziste che svolgevano però più che altro operazioni di polizia, dovevano stare attenti che non saltassero i ponti e cose di questa natura per rendere più facile l’esodo delle truppe armate. E fu sorpreso un ragazzo che aveva poco più di 17 anni, si chiamava Giacomo Olivi, era di Parma, era un partigiano liberale che è una cosa abbastanza stravagante, i partigiani appartenevano a quella minoranza sabauda che si lega appunto al vostro Piemonte che erano un’avanguardia di idealisti straordinariamente esemplare dal loro punto di vista anche per la loro esiguità, che li poneva anche molto a rischio, mala grande partecipazione era costituita dai comunisti, dai socialisti, dai cattolici e poi i repubblicani, i socialdemocratici e quant’altri. Questo giovane liberale distribuiva del materiale inneggiante alla libertà. Fu sorpreso da un drappello nazista e come direbbe un cronista di giudiziaria assegnato al carcere mandamentale. Ora ditemi se ha un senso a pochi giorni dalla fine della guerra far valere ancora i regolamenti, i dettati, gli obblighi che si esercitano in periodo di grave emergenza come una guerra. La guerra non solo è finita ma è vinta e per i tedeschi la guerra è finita e persa e nondimeno questo ragazzo viene consegnato a questo carcere e una mattina viene ucciso. Il cronista del giornale locale La gazzetta di Parma scrive un pezzo di grande qualità. Io oggi disponendo di una redazione con qualche lacuna lo andrei a prendere un ragazzo di quella tempra e di quella qualità e me lo porterei in casa. Scrive partendo da un po’ lontano, si rivolge ai genitori che non sono stati né favorevoli né contrari al fascismo Erano di quelle persone cosiddette d’ordine che non si vogliono immischiare perché dicono che la politica la devono fare coloro che pensano di poterne cavare qualcosa di utile, il resto è robetta, sono cose con cui è facile anche sporcarsi le mani. Bene questo ragazzo scrive cominciando con Ricordate che la cosa pubblica è noi stessi e svolge tutto un breve ragionamento per dire non sentitevi mai esclusi da ciò che accade attorno a voi perché voi fate parte di quella realtà,. Se vi escludete da quella realtà è segno che siete disposti a vivere come i fantasmi quindi a non esistere socialmente, ad essere irrilevanti dal punto di vista sociale e per quello che mi riguarda ora che sapete della mia morte non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere, pensate che tutto è successo perché non ne avevate più voluto sapere”. A me pare una bellissima metafora anche per i giovani di oggi: dovete volerne sapere. Non è possibile che voi facciate di ogni erba un fascio dicendo ma i telegiornali ci raccontano soltanto che noi ci troviamo, che il sabato sera andiamo incontro alo sballo, che trasgrediamo in mille modi, che ci ubriachiamo. Non fidatevi di questi pretesti banali, assurdi e fintamente consolatori. I telegiornali, i giornali sono invece pieni di notizie che contano e sulle quali dovete soffermarvi per ragionare. Potete farmi un’obiezione questa sì sacrosanta, che quegli stessi giornali alla notizia potrebbero far seguire un approfondimento per capire bene la notizia che quasi sempre rimane là appesa in attesa di essere smentita dal telegiornale che segue. Quando io dicevo il GR1, lo so che è indecente citarsi, ma io sono un uomo pubblico, tutte le volte che mi metto in gioco, cioè mostro la faccia in qualche modo mi comprometto, allora dirigendo il GR1 io divisi in due parti il mio giornale: la prima parte era tutta di notizie, la seconda tutti approfondimenti di quelle notizie e mi pare che il pubblico avesse apprezzato questo metodo di lavoro, ma su questo torneremo.
Volevo dirvi allora che il 25 aprile del 1945 segnò un altro epocale passaggio da una generazione all’altra. I partigiani di quel tempo consegnavano un’Italia diversa ad una generazione che era nata non da molto, qualcuno non era ancora nato, voi certamente non eravate ancora nati. Eravate ancora nel limbo di questa oscurità dalla quale la provvidenza vi ha tratto dandovi il vero, grande, prodigioso miracolo che è quello di venire al mondo, onoratelo questo privilegio rispetto a tutti coloro che non sono nati e non nasceranno. Che cosa è questo privilegio se non lo spendete? Perché siete venuti al mondo? Perché dire di no al tempo che state vivendo, perché dire che tutto sommato non ne vale la pena? Io vorrei farvi vedere questo filmato che appunto ho registrato nel 1966 andando a ripescare i partigiani di quel tempo e vi dico subito perché: non è una commemorazione di qualcosa che è stato celebrato e onorato come si doveva 1000 volte, ma perché mi pare di avere colto, per merito loro, una capacità straordinaria di interpretare la storia, essendo persone umilissime, alcune addirittura analfabete che hanno capito che cosa ha voluto dire prendere le armi in quel momento in nome di una patria che era di tutti per consegnarla ad una generazione che sapesse farne qualcosa di meglio di quella che aveva creato il disastro.
Sono certo che avrete capito benissimo il senso della riproposizione di questo documento che dovrebbe rimanere nelle teche, avere una sua ragion d’essere nel ricordo della storia del nostro paese ma che qui acquista un valore un po’ particolare perché laddove questa gente così semplice parla della responsabilità civile, del bisogno di essere leali nei confronti della generazione che sta per sopravvenire, del senso di responsabilità alta che si assumono nei confronti dei giovani che dovranno ricevere questo testimone e portarlo là dove li chiama la vita. Ecco c’era questo spirito e i giovani credo che si siano sentiti incoraggiati. Vorrei che si creassero anche nel nostro tempo le condizioni per cui i giovani sentano di non vivere inutilmente ai margini della società, socialmente, intellettualmente e culturalmente quasi irrilevanti ai fini della comunità.
Vorrei concludere dicendo che la cosa più importante è che non vi consegnate alla piccola grande truffa del qualunquismo per distrarvi dalla politica e consegnare le vostre rabbie e le vostre speranze a quell’unica possibilità sopravvissuta alla pandemia non avreste più la pletora degli schieramenti ne rimarrebbe uno soltanto per il quale potreste anche non schierarvi perché sareste già ingaggiati, iscritti, timbrati, tatuati dal solo potere rimasto cioè il partito unico, quello dal quale abbiamo iniziato il nostro incontro di stamani.
Domani sarete ciò che pensate e fate oggi quindi non lasciatevi sfuggire un futuro che ha le radici qui in ogni momento anche in questo momento stesso mentre noi ci stiamo parlando che va già generando a suo modo ciò che diventerete.
Ciò che si vive è per il dopo, ragazzi. Un uomo ve l’ho già detto è un uomo per il suo avvenire. Aprite bene gli occhi, guardatevi intorno, siete ciò per cui l’ostinato ottimismo della natura opera ogni giorno in nome dell’umanità e benché io sappia quanti di voi vivano la loro giovinezza senza negarla con il pretesto delle sue difficoltà, anzi impegnandosi in mille modi per superarle vedo ovunque che questa parte volonterosa non ha maggiore fortuna dell’altra che si consegna al luogo comune dell’esser giovani intendendo che le si deve per ciò stesso indulgenza e impunità lasciando libero ciascuno di vivere i suoi fragili disincanti i suoi ingannevoli giudizi le sue effimere ripulse. Sarebbe tutto comprensibile se la dimensione individuale dello sconcerto e dello scontento si traducesse in una maggiore consapevolezza dei diritti personali, nella crescente esigenza di nuovi spazi per l’autodeterminazione, in una richiesta di giustizia, di benessere di felicità e di amore, mai avanzati in almeno 50 anni di culture per cos’ dire massificanti. Se insomma il recupero dei valori privati che è la visione dogmatica di un primato del collettivo pretendeva di avere screditato per sempre fosse l’inizio di una lettura più laica, pragmatica, irrituale della politica. Così non è, se non molto di rado. Un prezzo da pagare alla fine dell’ideologia è stato detto potrebbe essere la fine anche della politica e della storia e questa è una doppia balordaggine. Mi tengo soltanto alla politica e non saprei immaginare se non evocando tempi e vicende terribili il prezzo da pagare ad una sua definitiva sconfitta. Teniamocela dunque e pratichiamola. Di questi che stiamo vivendo un giorno si potrà dire che furono gli anni in cui la politica rischiò di perdere i giovani. Resta poco tempo in genere tra generazioni per ricomporre un equilibrio compromesso da una serie di errori gravi, anzitutto quello di aver lasciato crescere il disamore per la comunità, cioè per il mettere in comune la parte pubblica della nostra vita. Colpisce ancora ciò che scrisse, non a caso, un altro poeta, Mario Luzi: I giovani non hanno ancora messo radici profonde, sono esposti alla tempesta più degli adulti, la loro tempesta è una domanda di vita non soddisfatta il disinganno e la disperazione imperversano trovando minore resistenza ma la loro resistenza è di oggi ed è qui e noi dobbiamo essere con loro a resistere, con loro e per loro”.
Anche Adorno i era pronunciato su questo pericolo: Attenti potreste perderla la gioventù è organizzata ed amministrata dagli adulti secondo criteri di natura sostanzialmente econometrica cioè secondo la logica del mercato.
Il risultato a guardare qua e là è l’avere prodotto anche il disinteresse e l’ignoranza, rivalse, ma intanto questi ragazzi dell’occidente, non solo del nostro paese, li avete visti o intravisti dal cinema e dai telegiornali, questi ragazzi parlano della vita che si svolge intorno a loro, del modo di rappresentarla con una tale stizza per vedere qual è il giudizio che si dà sommariamente della condizione giovanile perché parlano di noi, dicono, solo per la droga, per il sabato sera, per la violenza degli studi, e sono questi ragazzi secondo i quali però Tienanmen è un profumo per uomo, che svenano i genitori con i cellulari e si irritano se vuoi sapere dove sono e cosa fanno, questi ragazzi con le mutande firmate ma che non firmano un appello contro la mafia, che alla domanda quanto dura il fascismo rispondono una decina d’anni, cosa furono Hiroshima e Nagasaki e rispondono due motociclette da corsa, e se chiedi chi era De Gasperi dicono un cardinale, questi ragazzi che mi fa male non capire ma che sembrano gareggiare in un’idea astratta del mondo, guardano Blob credendola una comica del regime, giudicano la politica un perditempo o un affare ignari di farne parte sia pure con le idee che hanno in testa quelle d’altronde nelle quali noi tutti li lasciamo, confronto tutto ciò con il sentimento del bene comune da difendere, della dignità da provare, della patria che non si nominano più perché sono parole che sono diventate retoriche. Io ricordo di avere scritto un verso che dice Patria chi ti nomina più? Si sente dire che una volta ti si nominava ma era un luogo comune, una realtà invece che hai sotto i piedi, magari abbandonata alle alluvioni come quelle di questi giorni, agli smottamenti come quelli dell’altro giorno, alle frane come quelle dell’altro giorno ancora e persino ai crolli dei più grandi monumenti dell’umanità che si sono ripetuti ancora ieri nonostante si fossero annunciati una settimana fa. Eppure c’è una parola ragazzi, questa parola è speranza che oggi ha preso un suono meno astratto proprio nell’ambito delle conquiste concrete. Citerò per primo un grande santo il più laico che in questa materia io conosca ed è Sant’Agostino il quale dice: Da due tentazioni dobbiamo ugualmente guardarci: dalla disperazione senza scampo e dalla speranza senza fondamento.
Per concludere da un altro versante con questo speculare bellissimo invito di Elias Canetti il quale dice: Certe speranze, quelle pure, quelle che nutriamo non solo noi stessi, quelle il cui adempimento non deve tornare solo a nostro vantaggio, le speranze che teniamo pronte per tutti gli altri, che procedono dalla bontà innata della natura umana, queste speranze di un giallo solare bisogna nutrirle, proteggerle, ammirarle, quand’anche non dovessimo vedere il giorno in cui si compiano, perché nessun altro impegno è altrettanto sacro e da nessun altro inganno dipende a tal punto la nostra possibilità di non finire sconfitti.
E siete voi ragazzi i privilegiati ma anche i volenterosi, i responsabili, gli esigenti protagonisti del vostro futuro a dover dire con Ernst Bloch: La ragione non può fiorire senza la speranza, ma la speranza non può parlare senza la ragione.
Non privatevi dunque del valore senza prezzo del cercare per sapere del sapere per capire e del capire per scegliere, come vi dicevo poco fa. Qui sta la ragione, il monito e la legge, qui sta il vostro privilegio, la vostra fatica e il vostro coraggio.
È la vostra età e il vostro tempo, adesso avrete anche il vostro spazio ed un telo bianco sul quale voi proietterete le vostre idee e le vostre emozioni. Avrete guardato al passato puntando i piedi nel presente e guardando il futuro con il coraggio e la speranza che vi contraddistingue. Cominciamo ora la proiezione dei vostri filmati, prima però vedremo la presentazione vostra con una introduzione girata da Bruno Bozzetto.