Proposte di audio-lettura al tempo del coronavirus
di Mariapia Donat-Cattin
Raffaello Sanzio, La scuola di Atene (1509-1511), Stanza della Segnatura (Musei Vaticani)
La peste di Atene
Tucidide, Storie, II, 47-54
Subito all’inizio dell’estate i Peloponnesi e gli alleati […] invasero l’Attica al comando di Archidamo, re dei Lacedemoni e, accampatisi, devastarono la terra. Non erano ancora passati molti giorni da quando costoro erano giunti in Attica, che la pestilenza cominciò a sorgere in Atene; si dice, sì, che essa anche prima fosse scoppiata in molte località, a Lemno e in altri paesi, tuttavia un tale contagio e una tale strage non erano avvenuti in nessun luogo a memoria d’uomo. Ché non bastavano a fronteggiarla, neppure i medici, i quali non conoscendo la natura del male, lo trattavano per la prima volta; anzi loro stessi morivano più degli altri, in quanto più degli altri si accostavano al malato, e nessun’altra arte umana bastava contro la pestilenza. Tutte le suppliche fatte nei luoghi sacri e ogni rivolgersi ai vaticìni e a cose del genere risultò inutile, e alla fine gli uomini abbandonarono questi espedienti, sopraffatti dal male.
Dapprima, a quanto si dice, la pestilenza cominciò in Etiopia, sopra l’Egitto, poi sorse anche in Egitto e in Libia e nella maggior parte della terra del re. Ad Atene piombò improvvisamente, e dapprima contagiò gli uomini al Pireo, sì che dagli Ateniesi si disse anche che i Peloponnesi avevano gettato dei veleni nelle cisterne (al Pireo, infatti, non vi erano ancora delle fontane). Successivamente la pestilenza raggiunse anche la città alta, e allora gli uomini morivano in maggior numero. Si dica su questo argomento quello che ciascuno pensa, sia medico sia profano, sia sulla probabile origine della pestilenza, sia sulle cause che si potrebbero ritenere adatte a procurare tanto sommovimento. Io dirò di che genere essa sia stata, e mostrerò quei sintomi che uno potrà considerare e tenere presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse una seconda volta giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati.
Quell’anno era stato, come tutti riconoscevano, sano più di ogni altro per quanto riguardava le malattie; se anche uno si era ammalato prima della pestilenza, ogni malattia andò a finire in questa. Gli altri invece erano presi improvvisamente, senza nessuna ragione, mentre godevano perfetta salute, innanzitutto da forti dolori alla testa e da arrossamenti e da bruciori agli occhi. Le parti interne, cioè la gola e la lingua, subito erano di color sanguigno ed emettevano un fiato strano e fetido. Infine, dopo questi fenomeni, sorgevano starnuti e raucedine, e dopo non molto il male scendeva nel petto insieme a una forte tosse; e quando si fissava nella bocca dello stomaco, vi produceva convulsioni, mentre sopravvenivano svuotamenti di bile di tutti quei generi nominati dai medici, e per giunta con forti dolori.[…]. E il corpo, a toccarsi esteriormente, non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; le parti interne ardevano a tal punto da non poter sopportare il rivestimento di vesti leggere o di lini, né altro che non fosse l’andar nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda. E molte persone non curate facevano questo, gettandosi nei pozzi, prese da sete insaziabile; tuttavia il bere molto o poco dava lo stesso risultato. E continuamente li tormentavano la difficoltà di riposare e l’insonnia, mentre il corpo, per tutto il tempo che il morbo raggiungeva il culmine della violenza, ma inaspettatamente, resisteva al tormento, sì che per la maggior parte morivano dopo nove o sette giorni per l’ardore interno, ancora in possesso di qualche forza. […].
Michiel Sweerts, La peste in una città antica (1652-1654)
Percorreva tutto il corpo, a partire dall’alto, il male, il quale prima si era localizzato nella testa, e se uno scampava dai casi più gravi, ciò era indicato dalle affezioni che il morbo aveva arrecato alle sue estremità. […].
Poiché l’aspetto della pestilenza era al di là di ogni descrizione in tutti i casi il morbo colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana, e in questo particolare soprattutto esso mostrò di essere diverso da uno dei soliti: quegli uccelli e quadrupedi che si cibano dei cadaveri, sebbene molti ne fossero lasciati insepolti, o non si avvicinavano o, dopo averne gustato le carni, morivano. […].
Tale, dunque in complesso, secondo il suo aspetto, era il morbo (anche se si tralascia di descriverne molti altri sintomi insoliti), a seconda delle differenze che assumeva rispetto ad altri, quando colpiva una persona. E, oltre alla peste, nessun’altra malattia delle solite infieriva in quel tempo: anche se sorgeva, andava a sciogliersi in questa. E gli uni morivano per mancanza di cure, gli altri anche se erano molto curati. Non esisteva, per così dire, nessuna medicina particolare che si potesse applicare e guarisse: quello che a uno era utile, proprio questo a un altro era dannoso. Nessun organismo, sia forte sia debole, era sufficiente a combattere il morbo, ma tutto questo portava via, anche quello che era curato con la massima attenzione. Il lato più terribile della malattia era lo scoraggiamento da cui uno era preso quando si sentiva male (subito datosi col pensiero alla disperazione, si lasciava andare molto di più e non resisteva), e il fatto che per curarsi a vicenda si contagiavano e morivano l’uno dopo l’altro, come le pecore; questo causava la strage maggiore. Se per timore non volevano recarsi l’uno dall’altro, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per mancanza di uno che prestasse le cure necessarie; se si accostavano alle persone morivano soprattutto coloro che ci tenevano a un agire meritevole; per vergogna, infatti, costoro non si risparmiavano, ma si recavano dai loro amici poiché anche il compianto su chi era morto alla fine era trascurato, per stanchezza, persino dai familiari, sopraffatti dall’immensità della sciagura. Tuttavia quelli che erano scampati compiangevano in maggior grado chi moriva e chi stava male, perché ne avevano già fatto esperienza ed erano ormai al sicuro: il morbo non colpiva la stessa persona una seconda volta in modo mortale. Ed erano considerati felici dagli altri, e loro stessi, per la gioia del momento, avevano la vana speranza di non poter essere più uccisi da nessun’altra malattia. […].
Tutte le consuetudini che prima avevano nel celebrare gli uffici funebri furono sconvolte, e si seppelliva così come ciascuno poteva. E molti usarono modi di sepoltura indecenti per mancanza degli oggetti necessari, dato che numerosi erano i morti che li avevano preceduti […].
E anche in altre cose, nella città, il morbo dètte inizio a numerose infrazioni delle leggi. Più facilmente uno osava quello che prima si guardava dal fare per suo proprio piacere […]. Nessun timore degli dei o legge degli uomini li tratteneva, ché da un lato consideravano indifferente essere religiosi o no, dato che tutti senza distinzione morivano, e dall’altro, perché nessuno si aspettava di vivere fino a dover rendere conto dei suoi misfatti e pagarne il fio, essi consideravano piuttosto che una pena molto più grande era già stata sentenziata ai loro danni e pendeva sulle loro teste, per cui era naturale godere qualcosa della vita prima che tale punizione piombasse su di loro.
Piombati in una tale sciagura, gli Ateniesi ne erano schiacciati, mentre gli uomini morivano dentro la città e fuori la terra veniva devastata. […] la pestilenza non era entrata nel Peloponneso in modo considerevole, ma regnava soprattutto in Atene e poi negli altri luoghi più popolati. Questi dunque gli avvenimenti riguardanti la pestilenza.