Danilo Morini: esempio alto e umile di un paese migliore
di Giorgio Aimetti
di Giorgio Aimetti
Danilo Morini, scomparso in questi giorni, merita più di una commemorazione di maniera. È stato un personaggio che ha inciso molto nella storia della sanità italiana; è stato protagonista di una fase politica nella quale si confrontavano due tendenze: quella che voleva fare del servizio sanitario qualcosa di nazionale e diffuso in tutto il paese, e quella di trasformarlo, invece, in una collezione di venti diversi servizi regionali. Uno scontro nel quale gli schieramenti contrapposti hanno subito sconfitte e messo a segno vittorie, con risultati discutibili e incerti, se confrontati con quello che da allora è accaduto nel settore.
Morini era uno dei massimi esperti della politica ospedaliera italiana ai tempi della Riforma sanitaria; era stato per sette anni deputato in quella squadra di emiliani che aveva coinvolto anche Vittorino Carra e altri che rappresentavano l’ala di Forze Nuove di quella multiforme sinistra democristiana dell’Emilia e Romagna che aveva esponenti del massimo rilievo, da Ermanno Gorrieri a Beniamino Andreatta, a Romano Prodi, a Pierluigi Castagnetti fino al tempo straordinario della segreteria Zaccagnini.
Lo avevo conosciuto a Saint-Vincent verso la metà degli anni Ottanta per avergli chiesto a nome degli autori la presentazione di un volume edito dall’Ordine Nazionale degli Infermieri Professionali. L’avevo incontrato nuovamente quando, impegnato nella cura dei Discorsi parlamentari di Donat-Cattin (e in previsione della stesura della biografia politica del leader di Forze Nuove), mi ero trovato a dover illustrare il progetto di riforma del Servizio sanitario nazionale predisposto dal ministro e messo a punto proprio da lui. Lo avevo raggiunto in Emilia per due giorni di colloqui segnati da una grande quantità di riflessioni importanti su quel provvedimento e da una montagna di aneddoti che vedevano protagonista Donat-Cattin e i suoi più stretti collaboratori, a cominciare da Elio Guzzanti – anche lui futuro ministro del settore – , Paolo Affronti e altri coi quali formava un gruppo affiatato e di straordinaria efficienza.
Danilo Morini aveva illustrato i problemi di fronte ai quali il provvedimento si era a lungo arenato: taluni sollevati dalla Commissione bilancio e tesoro (presieduta da Andreatta), altri dai preconcetti politici del Partito comunista, particolarmente avverso alla personalità del ministro più che al contenuto di quel provvedimento. Aveva poi ricordato la gigantesca campagna contro l’Aids, senza precedenti in Italia e in Europa, la lettera inviata a 21 milioni di famiglie che il ministro aveva corretto di suo pugno, le polemiche che ne erano seguite…
In seguito aveva spiegato che il provvedimento per consentire le opere sanitarie, messo a punto a quel tempo, era diventato la “Legge Donat-Cattin” regolarmente rifinanziata ogni anno, ormai sono trentacinque volte. Se ne sentiva orgoglioso per la parte che aveva avuto.
Dopo l’esperienza tumultuosa con Carlo Donat-Cattin, Morini era tornato a fare il direttore al ministero, a combattere i tentativi di insabbiamento dei progetti avviati dal “suo ministro”, finché al presidente del consiglio Amato era toccato di portare alla meta le leggi avviate a quel tempo. Giunto alla pensione aveva guidato a lungo come commissario grandi istituzioni sanitarie nazionali: dal Policlinico San Matteo di Pavia all’Istituto Rizzoli di Bologna. Negli ultimi anni aveva assunto la presidenza della sezione di Reggio Emilia dell’Associazione dei Partigiani Cattolici d’Italia, ultimo impegno a tutela della Costituzione nata dalle rovine della Seconda guerra mondiale e dalle sciagure lasciate dal regime fascista.
Infine aveva scritto un libro che conservo. Il suo titolo: Morirò democristiano (Il più tardi possibile). Un testo che non voleva essere solo una provocazione in tempi difficili per chi, come lui, aveva fatto dell’adesione allo scudocrociato una ragione di impegno politico e una lezione per tanti che, allora come adesso, non volevano capire. Era soprattutto un segno di quell’orgoglio che caratterizza molti che vedono con nostalgia un’epoca politica che sembra svanita con il tempo migliore della Repubblica.