Per il giorno del ricordo
10 febbraio 2023
10 febbraio 2023
Tempo fa è uscito un libro che meritò una bella recensione di Gianni Vattimo sulle pagine dell’inserto Tuttolibri della Stampa: Significati del confine. Limiti naturali, storici, mentali. Le domande cui intendeva rispondere, apparentemente semplici, erano queste: “Che cos’è un confine? Come funziona? Perché a un certo punto qualcuno decide di stabilire un confine? Come viene vissuto un confine?”
A volte il confine, come nei giochi dei bambini, è una linea immaginaria, altre volte – e qui entrano in campo gli stati e la storia – è “strumento di pacificazione e fonte di tensioni, luogo di incontro, ma anche luogo di scontro” se non “di malinteso”. In ogni caso, al di là della ormai superata e assai discutibile ‘teoria dei confini naturali’, il confine sancisce sempre che qualcuno vanta dei diritti sullo spazio delimitato proprio da quella linea.
I titoli dei capitoli da cui è costituito questo bel libro – Come si costruisce un confine; Il confine come difesa/offesa; Il confine come spazio del malinteso; Il confine come spazio del conflitto; Il confine come spazio di pacificazione – sono utili a introdurre il tema del “giorno del ricordo” istituito nel nostro paese solo nel 2004, dopo un lungo periodo di colpevole rimozione e oblio. L’intento della legge che lo istituì era quello di “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
Il tormentato confine orientale, appunto, quello che genera un esodo grandioso durato più di un decennio. Per ricordare questo tragico passaggio della nostra storia abbiamo scelto un punto di vista particolare: l’arrivo delle popolazioni giuliano-dalmate a Torino nel febbraio del 1947.
Il Piemonte, specialmente il suo capoluogo ma anche le città e le province di Novara e Vercelli in particolare, si distingue fra tutte le altre aree italiane in cui giungono i profughi per la generosità e la disponibilità delle istituzioni e della cittadinanza. Anche se non mancano, anche qui. episodi di intolleranza e di rifiuto dovuti a molteplici motivi, fra i primi il timore della concorrenza sul piano della conquista di un posto di lavoro e della casa, ma anche la sommaria ed errata identificazione dei profughi come fascisti.
Noi sappiamo che a Torino le casermette, dove viene collocata una parte consistente dei profughi, un vero è proprio ghetto, verranno smantellate solo nel 1966.
La tragedia dell’esodo degli italiani della Venezia Giulia, della Dalmazia e dell’Istria nel corso e dopo la Seconda guerra mondiale, pur nella sua specificità, deve essere inscritta nel contesto del più grandioso spostamento di popolazioni che la storia europea abbia mai conosciuto. Una vicenda poco nota ai più che andrebbe approfondita con uno sguardo rivolto al presente.
Somiglia ma non è. Non è quella di prima; non lo sarà mai. Mi pare una terra di altri, che non sarà mai mia, è come se essa lavorasse me. Non si ha più amore… Perché lavorare voleva allora dire far meglio degli altri, sentirti figlio di tuo padre, su una terra tua di sempre (Tomizza, Trilogia istriana, 1967: 425).
Con queste parole, Fulvio Tomizza – cantore del “piccolo mondo” istriano e dell’esodo forzato dei suoi conterranei – dà voce al dramma dello “sradicato”, alla ricerca di una problematica “terra promessa” che difficilmente potrà sostituire quella perduta, abbandonata sull’altra sponda dell’Adriatico.
La parabola di questi individui tocca, tra le tante città italiane, anche Torino: “città industriale e proletaria per eccellenza”, come scriveva Gramsci, nel 1920, sulle colonne de «L’Ordine Nuovo».
L’arrivo di migliaia di cittadini italiani dai territori di Fiume, dell’Istria e della Dalmazia avviene in una città che deve fare i conti con le criticità dell’immediato dopoguerra e con l’urgenza del problema abitativo e che, di lì a poco, dovrà fronteggiare la forte immigrazione (soprattutto dal Sud e dalle zone bracciantili di Rovigo e del Polesine) e le conseguenze del miracolo economico. Tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta, Torino passerà dai 750 mila abitanti al milione e 114 mila del 1963, con gravi problemi di vivibilità per la carenza di abitazioni, di trasporti, di servizi e dell’edilizia scolastica, che si aggiungono alle conseguenze dello sradicamento sociale e umano vissuto dagli immigrati e dalle loro famiglie.
Molti dei profughi giuliano-dalmati arrivano, nei primi mesi del 1947, alla stazione di Porta Nuova, dove – sul lato “arrivi” – viene allestito un punto di ristoro: una delle prime e concrete iniziative organizzate dal Comune, allora guidato dal comunista Celeste Negarville. Lo stato italiano si fa promotore di una serie di provvedimenti legislativi per agevolare i giuliano-dalmati, tra i quali va menzionata la legge 137 del 4 marzo 1952, meglio conosciuta come legge Scelba, i cui riflessi più significativi sono l’assegnazione ai profughi del 15% degli alloggi di edilizia popolare edificati a carico dello stato per mano degli Istituti Autonomi per le Case Popolari e l’obbligo da parte delle aziende e delle imprese appaltatrici di opere pubbliche di assumere al loro interno la quota del “5% di manodopera tra tutte le categorie di profughi assistiti” (Oliva, 2011: 54). Allo sforzo assistenziale delle istituzioni, corrisponde del resto un uguale impegno del mondo cattolico torinese.
Arrivo dei primi profughi istriani a Porta Nuova, febbraio 1947. © Archivio Storico della Città di Torino
Il luogo deputato ad accogliere i nuovi arrivati sorge nel quartiere operaio di Borgo san Paolo. Sono i vecchi edifici del complesso militare della Casermette di via Veglia: una sorta di “passaggio obbligato” per buona parte degli esuli istriani giunti a Torino, divenuto poi il simbolo degli stridenti contrasti generati dalla grande trasformazione della città negli anni Sessanta, se è vero, come si legge sulle pagine de «La Gazzetta del Popolo»:
che accanto a bambini che razzolano in cortili pieni di detriti e ragazze cenciose che siedono in ozio sui marciapiedi, si trovano parcheggiate lungo i viali automobili, si vedono nelle case televisioni, frigoriferi, radio e lavatrici, simboli degli unici strumenti che la società opulenta ha messo a disposizione, a rate, a questa generazione, per una loro formale partecipazione al benessere» (Dopo vent’anni scompare il ghetto, senza data).
Casermette di Borgo San Paolo, Torino, 1957. © Archivio Storico della Città di Torino
A partire dal 1955, in seguito allo smantellamento della parte Nord del Centro Raccolta Profughi di via Veglia, alcune famiglie andranno ad abitare nei nuovi padiglioni metallici costruiti nei cortili dei vecchi Quartieri militari e in quelli dell’ex Laboratorio Chinino di Stato in via Giordano Bruno; ad altre saranno invece assegnati i nuclei delle case Gescal, sorte a Mirafiori Sud delle case popolari di via Artom, corso Cosenza e piazza Sofia; altre ancora saranno trasferite nella borgata Lucento, grazie alla costruzione di uno dei primi insediamenti realizzati a Torino con presupposti di autosufficienza: il villaggio Santa Caterina, situato negli isolati compresi tra le vie Pirano, Parenzo e Sansovino e corso Toscana, all’interno del quale sorgono le cosiddette “Case Rosse”, destinate ad accogliere i profughi giuliano-dalmati.
Anche se il cammino di integrazione dei profughi trovò compimento, sia pure lentamente e non senza grandi difficoltà, la ferita dello sradicamento – che travolse e stravolse le vite dei molti esuli e dei pochi che scelsero di restare – rimase insanabile, condannandoli alla condizione che Nelida Milani, protagonista e vittima di quel dramma, ha definito un perpetuo “esilio interiore”, avvelenato – ancora con le sue parole – dalla “tarantola della nostalgia”: “la malattia del tempo che fu”. Un “esilio interiore” dal quale si può tentare di evadere grazie alla parola e alla volontà testimoniale, come scrive un’altra voce dell’esodo istriano, Anna Maria Mori:
E l’Istria, gli istriani, hanno un gran bisogno di parole che raccontino, che dicano la verità. Che ricostruiscano non solo la loro storia, ma la storia intera della loro terra: raccontarla, restituire ai luoghi i loro nomi antichi e veri significa anche ridare a quella terra e al suo popolo martoriato e misconosciuto il giusto orgoglio dell’appartenenza, l’identità, la dignità negata e perduta (Mori, Nata in Istria, 2006: 146).
La scrittura come “cura”: “atto redentore”, capace di “ritrovare, dopo il coma della memoria, una prima vita perduta” (Bettiza, Esilio, 1996: 399).
Figli di profughi davanti alle Case Rosse del Villaggio di Santa Caterina, Torino, 1956. © Istoreto
Bibliografia
Enzo Bettiza, Esilio, Milano: Mondadori, 1996
Guido Crainz, Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Roma: Donzelli, 2005
Giancarlo Libert, Città Giardino e Casermette San Paolo. Storie e testimonianze della periferia torinese, Chivasso: Aquattro Servizi Grafici, 2010
Marisa Madieri, Verde acqua, Torino: Einaudi: 1987
Claudio Magris, La storia non è finita, Milano: Garzanti, 2006
Nelida Milani, Una valigia di cartone, Palermo: Sellerio, 1991
Nelida Milani, Anna Maria Mori, Bora, Piacenza: Frassinelli, 1998
Enrico Miletto, Con il mare negli occhi. Storia, luoghi, memoria dell’esodo istriano a Torino, Torino: Franco Angeli, 2005
—, Novecento di confini. L’Istria, le foibe, l’esodo, Milano: Franco Angeli, 2022
Anna Maria Mori, Nata in Istria, Milano: Rizzoli, 2006
Gianni Oliva, Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Milano: Mondadori, 2002
Gianni Oliva, Esuli. Dalle foibe ai campi profughi. La tragedia degli italiani di Istria, Fiume, Dalmazia, Milano: Mondadori, 2009
Fulvio Tomizza, Trilogia istriana, Milano: Mondadori, 1967
Piero Zanini, Significati del confine. Limiti natuali, storici, mentali. Milano: Bruno Mondadori, 1997
Per approfondire
Enrico Miletto, Le due Marie. Vite sulla frontiera orientale d’Italia link
L’Esodo istriano-fiumano-dalmata in Piemonte. Per un archivio della memoria link
La storia intorno alle foibe link
Puntata “Passato e presente” del 10 febbraio 2023, Le foibe e l’esodo, con Paolo Mieli ed Enrico Miletto link