Il messaggio di cordoglio del Presidente Sergio Mattarella
Il ricordo degli amici
di Ernesto Marenco
Un’amicizia quella mia e di Claudio durata 54 anni. L’ho conosciuto nel ’68 quando sono entrato alla Gazzetta in cronaca. Claudio faceva la bianca ed io lo sostituivo a volte in consiglio comunale. Passate poche settimane eravamo già amici per la pelle. Una simpatia reciproca. Andavamo d’accordo in tutto, politica, modo di pensare, sport, entrambi tifosi del Toro, mentre suo padre era della Juve e si diceva che solo in questo andasse d’accordo con Gianni Agnelli. Da subito, come del resto credo anche gli altri colleghi, ammiravo la sua personalità, il suo modo di agire sempre franco, gentile, convincente. Amicizia anche fuori dal giornale, Roberta e mia moglie Giorgia, con le due piccole Barbara e la mia Roberta andavamo in vacanza insieme, d’estate al mare, d’inverno a sciare, giocavamo a tennis allo Sporting. Un giorno mi dice è libero il posto da vice capocronista, devi farlo tu perché Rossi, il capocronista, è sempre assente e in cronaca di te ci fidiamo. Mi ricordo che gli avevo detto che preferivo scrivere, fare il cronista, che forse il direttore Vecchiato non era d’accordo. La sua risposta fu: “A Vecchiato ci penso io, non preoccuparti”. E lì avevo capito che seppure più giovane di me di otto anni, già aveva il piglio del leader. In effetti con Vito Napoli aveva fatto l’inchiesta sui baroni e gli scandali negli ospedali torinesi vincendo il prestigioso premio Saint Vincent. Prima ancora che diventassi capo cronista avevamo fatto insieme piccole inchieste, con l’avvento della legge Basaglia, sullo squallore e disumanità in cui si viveva nei manicomi torinesi. Ci eravamo inventati con il collega Roberto Schiaffino le pagine sui quartieri torinesi. Intervistavamo gli emigranti che arrivavano dal Sud, su dove lavoravano, dove vivevano. Quelle pagine uscirono solo un paio di mesi, davano fastidio a troppa gente.
Venne marzo del ’74, l’autogestione, e Claudio ne fu vero leader. Fu un anno e mezzo di crisi, Claudio s’inventò l’autogestione del giornale. Si caricò sulle spalle tutto il peso della battaglia quotidiana perché la Gazzetta tutte le mattine fosse in edicola. Viaggi continui tra Roma e Torino, aiutato da Nino Battiato che curava la parte finanziaria per pagare ai giornalisti e ai poligrafici uno stipendio più che dimezzato. Giorni faticosi, stressanti, notti insonni per cercare un nuovo editore. Nelle assemblee diceva, e aveva ragione, che Torino e il Piemonte non potevano avere un solo giornale, la Stampa, monopolio dell’informazione. Fece venire in corso Valdocco sindacalisti come Lama, Carniti, Benvenuto, E grazie alla sua capacità e caparbietà alla fine, anche con all’aiuto dei poligrafici, l’editore fu trovato. Durò pochi anni ma Claudio ancora poche settimane fa, durante le nostre tante passeggiate sul lungopò, si rammaricava con me della chiusura della Gazzetta. Mi diceva: “Ho lavorato tanto nella mia vita, è l’unico cruccio che ho in cuor mio”.
Anche perché da quella Gazzetta sono usciti fior fiore di giornalisti che rispondono al nome di Salvatore Tropea, Roberto Bellato, Cesare Martinetti, Piero Bianucci, Luigi La Spina e tanti ancora.
di Giorgio Aimetti
Claudio Donat-Cattin era mio amico, un amico vero, uno di quelli che ascoltavano dubbi e speranze, uno che sapeva come aiutarti e aveva il piacere di farlo, che condivideva con te l’amarezza per le cose che andavano storte.
L’avevo conosciuto nei giorni di Regione Democratica il mensile della sinistra Dc piemontese che lui animava, stando sempre un passo dietro ai suoi collaboratori. Io avevo 22 anni e la passione della politica. Lui la passione del giornalismo, la professione che svolgeva senza risparmiarsi e senza riposo.
Avevamo ricominciato a collaborare in modo anche più stretto quando suo padre aveva deciso di fondare Lettere Piemontesi e Terza Fase.
Claudio anche in quei mensili aveva saputo svolgere un’azione decisiva per trasformarli nello strumento di un dialogo e di un confronto che animavano la sinistra sociale nella DC.
La scomparsa di Carlo Donat-Cattin era sembrata a tutti non solo la fine di una politica, ma anche la fine di un’epoca. Era sembrata a noi. Claudio invece ci aveva richiamati subito alla necessità di essere fedeli ad un impegno, alle idee che suo padre aveva professato, ai valori che aveva messo in cima al fare politica.
E primo tra tutti si era dedicato in un modo accanito, radicale, senza riposo. Con una capacità vulcanica di ideare, progettare, mettere a frutto gli strumenti che la sua professione gli consentiva.
Così era nata la fondazione Donat-Cattin (uno strumento diventato subito importante per ricordare il passato e progettare il futuro). Con quanto sacrificio, anche economico, la famiglia abbia affrontato quella sfida, lo sanno solo gli intimi.
Io ricordo che Claudio non dimenticava certo di aver dissentito da tante idee del padre, ma era diventato quasi esecutore di un testamento politico e ideale, il più attento animatore di un progetto culturale che oggi ne continua la storia e sopravvive alla politica.
Caro Claudio, io credo che nessuno di noi, che abbiamo condiviso parte della vita con te, possa dimenticare l’entusiasmo, la forza del tuo impegno. La passione totale che lo ha caratterizzato. Per ciascuno di noi, dimenticarlo, fare un passo indietro sarebbe, credo, il modo per darti l’ultima delusione, l’ultimo dispiacere.