Scompare con Ciriaco De Mita una delle più significative figure del cattolicesimo politico della seconda metà del Novecento.
È stato il più importante leader della “sinistra politica” della Democrazia Cristiana, sovente in dialettica con quella sociale di Carlo Donat-Cattin.
Ha interpretato in modo coerente un’idea di riformismo centrato sulla dialettica tra le forze politiche, e tra i primi ha intuito l’importanza che assumeva per la trasformazione della società italiana un organico disegno di riforma istituzionale.
Se questa impostazione lo portava talvolta a mettere in secondo piano la concretezza delle questioni sociali, superava questa contraddizione con una raffinata capacità di analisi dei problemi della società italiana e dei limiti del suo sviluppo.
È stato, fino alla fine, un convinto sostenitore del ruolo politico dei cattolici, e noi lo ricordiamo anche per l’ultimo importante tentativo di rinnovamento della Democrazia Cristiana, quello della “stagione degli esterni” degli anni ’80.
Di Ciriaco De Mita riparleremo presto nel lavoro che stiamo conducendo sul cattolicesimo politico del secondo dopoguerra.
Il convegno di Saint-Vincent del 1989 è stato dedicato da Forze Nuove alla ricerca di una nuova convergenza delle sinistre democristiane, per affrontare insieme la crisi del partito. I principali interventi sono stati pubblicati sulla rivista Terzafase, numero X, Anno VII, ottobre 1989. Riproponiamo quello di Ciriaco De Mita.
“Da tempo il nostro ordinamento istituzionale è entrato in difficoltà. Il problema centrale è quello della stabilità del governo. Il processo di crescente divaricazione tra i partiti che concorrono a formare le coalizioni non è legato al temperamento delle persone, ma alle diverse strategie politiche. La Dc deve saper dare risposte chiare, recuperando la lezione sturziana. Un partito è popolare se sa rispondere ai bisogni della gente. E le istituzioni devono essere garanzia della possibilità di cambiamento”.
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di Ciriaco De Mita
Cari amici, quando con Donat-Cattin, in uno dei suoi rarissimi momenti di cordiale umanità (lo dico scherzando), concordai che sarei venuto al vostro Convegno di Saint Vincent, per la verità immaginavo di arrivare all’inizio e fermarmi per ascoltare. Questo mi avrebbe consentito di dire anche la mia opinione come concorso alla discussione.
Poi, per errori della memoria, ho scoperto che domani e dopodomani avevo degli impegni, qualcuno di ordine politico, altri di ordine familiare e, quindi, ho deciso di venire oggi. E di venire soprattutto ad ascoltare, perché ritengo che la novità, nel rapporto tra me e Forze Nuove, sia questa decisione di dialogare, che è, credo, un fatto politico di non secondaria importanza. Il discorso era il fatto di venire, ritenendo che in politica si raggiunge un livello di impegno più alto quando la discussione è viva. Poiché io non ho mai pensato che in politica ci siano i portatori di verità, è il confronto delle opinioni che concorre a ricercare la migliore soluzione possibile. E acquista ruolo chi con la propria opinione riesce ad indicare la soluzione possibile. Poi condivido anche il titolo del vostro convegno, la sinistra possibile, anche se ho qualche difficoltà, questo lo dico da un po’ di anni, ad individuare uno spazio nel momento in ali bisogna cambiare. Noi siamo in presenza della crisi del sistema politico e immaginare di ritagliarsi, o di occupare uno spazio in un sistema in crisi mi sembra infatti una cosa in contraddizione. Però il cambiamento avviene con i piedi nella realtà. E credo — questo per ragioni oggettive — che quelli che nella storia della Democrazia Cristiana si sono collocati nello spazio tradizionalmente occupato dalla sinistra, (anche se non è che gli altri non lo abbiano fatto) complessivamente hanno sempre tentato uno sforzo in più di ricerca della motivazione del loro impegno. Starei per dire che è questo ricordo che ci unisce. Ma il ricordo non basta, e quindi bisogna fare in modo che il ricordo diventi il presupposto per una nuova capacità di riflessione della quale abbiamo bisogno tutti. Detto questo, potrei fermarmi una seconda volta. Ma qui, oggi, ho ascoltato, in uno degli interventi, una interpretazione del mio pensièro sulle istituzioni che per la verità non coincide con quello che io penso. Non è colpa di chi l’interpreta, ma è colpa mia che dò o per scontate alcune cose o perdio, in maniera distratta, lascio sedimentare impressioni e giudizi che evidentemente poi diventano la mia opinione e non la opinione di chi mi giudica.
Da tempo, e credo adesso a maggior ragione, sono convinto che il tipo di ordinamento istituzionale del nostro Paese sia entrato in difficoltà. Le ragioni della difficoltà sono due: una è storica, perché alcuni aspetti dell’ordinamento istituzionale, già quando venne elaborata la Costituzione, affrontarono, ma non risolsero il problema della stabilità del governo.
E quando parlo di stabilità del governo non mi riferisco solo al governo centrale, parlo dei vari livelli di governo. L’ho detto in qualche altra circostanza e lo ripeto qui: questa deficienza, o questa carenza nell’ordinamento fu risolta politicamente con la maggioranza assoluta della Democrazia Cristiana. Per questo noi non abbiamo avvertito subito questa difficoltà. E successivamente, questa carenza venne supplita dalle politiche di coalizione, che sono la grande novità della storia democratica italiana del dopoguerra (quella degasperiana), attraverso la solidarietà tra forza affini per affrontare e risolvere i problemi di un Paese in trasformazione, conservando le condizioni della democrazia.
Forse come Democrazia Cristiana dovremmo dar luogo ad una riflessione serena, non solo per eruditi, per storici, ma anche per i semplici cittadini sulla esperienza politica del nostro Paese.
Perché credo che in molti di noi sia stata memorizzata più di una falsificazione sulla storia civile e politica del nostro Paese, presentata spesso come uno scontro tra conservazione e progresso, con la singolarità che oggi proprio le forze presentale come quelle del progresso sono in crisi rispetto alle forze cosiddette di conservazione. Questo forse ci aiuterebbe a rispondere meglio a polemiche strumentali che caratterizzano il dibattito tra le forze politiche, anche in questi giorni. Adesso la risposta politica che si era determinata nel tempo alla carenza istituzionale di un governo stabile è saltata. Questo è avvenuto per un insieme di ragioni che sarebbe lungo enumerare, ma anche per un concorso di circostanze diverse, che hanno segnato la stagione della contestazione nelle varie società progredite, e nel nostro Paese in maniera particolare. Perché il giudizio sulla contestazione del ’68 anche noi lo abbiamo accompagnato o con una eccessiva comprensione anche delle cose che non erano comprensibili, o invece conia cancellazione delle motivazioni forti che hanno fatto esplodere quel fenomeno. La contestazione è stata oggettivamente, indipendentemente dalle motivazioni, una ribellione alle forme di democrazia partecipata all’interno della gestione del potere delle istituzioni. Così, la domanda di partecipazione reale in una società cresciuta ancora oggi non ha risposta. Noi siamo ancora in presenza di questa crisi. E anche chi tra di noi — lo dico a Fontana, che è quello un po’ più cristallizzato su questa formula — ritiene che oggi esistano le condizioni per riprodurre una solidarietà tra le forze politiche, con riferimento alle culture tradizionali delle forze politiche, io credo che insegna una illusione che non ha riscontro nella realtà. Il processo di divaricazione crescente, anche tra partiti che concorrono a formare la stessa coalizione, non è legato all’umore o al temperamento delle persone, ma alla diversa strategia politica che ormai sottende le proposte dei partiti, compresi quelli che danno vita insieme a forme di governo. Questo è il dato su quale la Democrazia Cristiana deve riflettere per non correre il rischio, se non di andare all’opposizione, di trovarsi comunque all’angolo senza che ci sia uno scontro vero tra proposte politiche diverse nel nostro Paese. Io so che voi, soprattutto voi di Forze Nuove, ma anche tanti amici dell’altra sinistra, paventate il rischio che la Dc possa diventare partito moderato. Secondo me questo è un pericolo che non c’è. La Dc corre un rischio diverso, che è quello di scomparire, non di diventare partito moderato. Ma un partito popolare — e la Dc è un partito popolare — se rimane vivo questo rischio non lo corre. E un partito popolare è tale se si radica nella società come strumento espressivo della pluralità degli interessi in contrasto.
La Dc non sarebbe partito popolare se fosse solo il partito dei disoccupati. Voglio dire che non è la qualità dell’interesse a caratterizzare un partito come forza popolare, ma è la capacità di rappresentare la pluralità degli interessi. Qui è stata detta una cosa vera: che la nostra società si è corporativizzata e, quindi, la politica sta diventando sempre più estranea, mentre noi con le nostre giaculatorie rischiamo di aggravare questo sistema se non correggiamo i meccanismi entro i quali avvengono le decisioni politiche con riferimento ai processi sociali. Un partito popolare è tale se rappresenta insieme gli interessi costituiti, anche quelli forti, e le speranze, non solo gli interessi deboli, degli altri cittadini. La grande lezione sturziana è questa. Noi sembriamo a volte averlo dimenticato: la forza del partito popolare sta nell’utilizzare gli interessi forti come presupposto per una risposta alla speranza dei deboli, trasformando questa speranza in diritto. Perciò Sturzo e De Gasperi hanno parlato sempre di democrazia possibile, non di democrazia con altri aggettivi. Sapendo che è un processo che continua: le trasformazioni che intervengono risolvono un problema, ma proprio la soluzione di quel problema ne genera altri che la politica è chiamata a risolvere.
È in ordine a questo processo, caro Lello Lombardi, che le istituzioni diventano momento di garanzia. Non esistono le istituzioni che si sostituiscono ai processi della società. Le istituzioni, certo, in un dato momento si identificano con i processi nella società, ma la loro funzione è la garanzia, perché la evoluzione cambia continuamente i termini del rapporto.
Per questo la concezione della politica che hanno i cattolici popolare è diversa da quella borghese, liberaldemocratica che assume alcune conquiste come le conquiste da conservare comunque, perché rispetto al passato hanno risolto un problema, senza porsi però problemi del futuro. Ed è diversa dalle concezioni marxiste, che rispetto alle difficoltà compiono la stessa operazione, ma in maniera opposta, ipotizzando un tipo di soluzione definita e tentando di imporla alla società, indipendentemente dal grado di accettazione di quella soluzione da parte della società.
La democrazia è invece un processo continuo e le istituzioni debbono garantire questo processo. Ora, la mia impressione è che, in presenza di un distacco sempre più forte tra i meccanismi di decisione politica e i processi sociali reali, un po’ tutti i partiti, tutti, esclusa la Democrazia Cristiana, giocano a lasciare inalterato il momento di crisi. Condivido l’opinine di Bodrato su questo. Alcuni ipotizzano di realizzare nel nostro Paese un passo avanti sul piano del processo democratico utilizzando formule schematiche inutili: vecchio-nuovo, conservazione-progresso, clericali-liberali. Le formule sono diverse, i fronti di liberazione si inventano, perché i nemici si descrivono, non sono quelli reali, non c’è lo scontro politico che si riflette come proiezione dello scontro sociale. Questo è un rischio per la Dc, se noi non ci facciamo carico di rimettere in moto il processo di funzionamento dei meccanismi del potere, intendendo le istituzioni come i meccanismi del potere diffuso. Infatti noi rischiamo di saldare all’insoddisfazione della gente — vorrei dirlo a Donat-Cattin, pei che mi pare che lui ha colto già questo problema — il desiderio alternativista del Partito comunista e l’indicazione socialista della elezione diretta del capo dello Stato come soluzione istituzionale.
In realtà è l’alternativa del desiderio, ma che può diventare l’alternativa possibile. A me non basta, rispetto a una tale eventualità, fare un Consiglio nazionale e votare all’unanimità che siamo contro l’elezione diretta del capo dello Stato. In politica occupa lo spazio chi propone, non chi nega. In un mercato in cui tutti vendono un solo dentifricio si ha voglia di dire che non è buono. La gente compra il dentifricio che c’è. Poi esiste qualche sofisticato che non si lava i denti, però, insomma, il dentifricio è solo quello presente.
Ecco allora che, in presenza di questo dato, la connessione istituzione-ripresa dell’iniziativa politica diventa molto stretta. Non solo perché noi pensiamo ad un modello istituzionale pluralista, ma perché noi crediamo ad un sistema di istituzioni diffuse. Anche negli anni ‘50 — Gerardo Bianco lo sa — io non ho mai patito la suggestione marxista, sono rimasto immune da questa tentazione. E cercavo di trovare le risposte politiche sempre sul piano del pluralismo istituzionale, perché la democrazia è forte quando il potere è diffuso nella società. E il potere diffuso nella società deve trovare istituzioni che lo garantiscano. La non identificazione con nessun modello, per me non è mai stata qualcosa di riduttivo rispetto ai processi di cambiamento, perché era in realtà la possibilità del cambiamento continuo. Sempre chi ipotizza un modello definito come la soluzione, di fatto o compie un’astrazione, o comunque pone un limite al divenire della storia. In questo c’è anche la nostra concezione culturale e religiosa. Perciò io credo al pluralismo istituzionale. Alle volle, è vero, io posso sembrare meno attento agli strumenti concreti perché questo pluralismo si realizzi. Non è cosi, però. Io dico che il problema è la stabilità del governo: e ritengo che non ci sia una soluzione ottimale per ottenerla. Esistono varie soluzioni. E la soluzione migliore è quella che ha il massimo consenso di chi la pratica. Cioè, quando l’obiettivo è comune, lo strumento più idoneo è quello che raggiunge il maggior consenso.
Questo non è un fatto limitato alle istituzioni. Non si chiama un gruppo di professori di diritto costituzionale per ridiscgnarc il pluralismo istituzionale adeguato alla società trasformta. È sempre la politica, è sempre la indicazione politica a creare il fatto che poi il diritto è chiamato a garantire: ex facto, orltur ius.
Ma questo ancora non basta. Le istituzioni debbono garantire momenti più larghi di partecipazione, ma per coprire il rapporto tra istituzioni e società c’è bisogno del ruolo del partito come forma di organizzazione degli interessi. Di un partito forte e vitale.
Condizioni che rappresentano per me una preoccupazione, se Donat-Cattìn me lo consente, molto più forte della legalità interna. Dirò solo questo. Quando c’era qualche illegalità, il partito ha tentato un raccordo forte con la pubblica opinione, lo abbiamo visto nelle elezioni amministrative dell’85. Adesso mi auguro che si possa ripetere quel risultato, anche se i sintomi, i segnali, i fatti che ci sono di fronte credo che creino in ciascuno di noi notevoli preoccupazioni. Per la Democrazia Cristiana esiste questo problema: che essa è partito popolare, non se noi lo recitiamo all’inizio di ogni discorso, o lo scriviamo nello statuto. La Democrazia Cristiana è partito popolare se i militanti, non gli elettori, i militanti della Democrazia Cristana sono la proiezione dei bisogni, delle speranze, degli interessi radicati nella società: ecco un problema che dovremmo discutere con molla serietà, anche ai fini della definizione della nuova legittimità di rappresentanza all’interno della Democrazia Cristiana.
Io avrò commesso tanti errori, lutti, ma certamente non quello di non aver avuto sempre presente questa esigenza. E la mia preoccupazione di questi ultimi mesi è che il partito, per com’è, com’è organizzato, come si è richiuso, come si sta richiudendo, rischia di diventare sempre meno la voce degli interessi di queli che si riconoscono nella Democrazia Cristiana.
Quindi bisogna rifare il partito popolare, non nel senso di inventare un nuovo partito. Quando si parla di una, o due, o tre democrazie cristiane io rispondo che la Democrazia Cristiana è una, perché il giorno in cui fossero due non ci sarebbe più nessuno. Né io ho mai immaginato, nò immagino che un partito popolare, radicato nella società, consistente come la Democrazia Cristiana, possa essere un’elite di intellettuali. Il problema è risolvere la capacità di direzione politica del partito, fino al raccordo con l’ultimo militante.
Da questo punto di vista l’insegnamento di Moro è insostituibile. Moro può essere accusato dì lentezza, però aveva un disegno politico. Moro poteva avere carenze su singole operazioni progettuali, provvedimenti di governo particolari, ma nella sua testa è stata sempre presente una ipotesi strategica complessiva del processo democratico, che riguardava la Dc e l’intero sistema politico: l’attenzione di Moro agli altri partiti aveva questo significato.
Un partito ha la possibilità di diventare egemone quando, con riferimento alla storia e alle proposte degli altri partiti, è in condizioni di indicare la via dì marcia. La solidarietà si fanno su questo dato e su questo dato si può scoprire anche la solitudine. Le solidarietà senza motivazione sono un sintomo di preoccupazione, non un sintomo di forza. Moro ci ha insegnato questo e noi dobbiamo recuperare questa lezione, ritrovando, amici di Forze Nuove, la grande lezione del popolarismo cattolico, del popolarismo sturziano. Questa lezione, in fondo che cosa ci ha detto? Che in un processo democratico, la partecipazione dei cittadini non può esaurirsi nel momento del voto, delegando la gestione del potere a chi è mandato a guidare le istituzioni. Il partito popolare è lo strumento di saldatura continua tra il mandato dato e il riscontro che si fa, non in termini giuridico-formali, ma in termini politici. Le sezioni, le strutture del partito, la capacità di elaborazione del partito sono lo strumento attraverso il quale il singolo, il cittadino, l’elettore, il militante concorre, con una verifica permanente delle scelte compiute da chi nelle istituzioni ha il mandato espresso dal corpo elettorale. Sono tre momenti, istituzionale, politico e sociale, che si saldano insieme, anche se hanno una loro distinzione. Una riflessione vorrei fare anche sullo Stato sociale. Adesso che anche i comunisti sembrano averlo capito, vorrei che fosse chiaro anche tra di noi. Io non ho mai immaginato, non è scritto da nessuna parte e non l’ho proposto mai da nessuna parte, che bisognava operare il risanamento eliminando la tutela degli spazi sociali.
Tra l’altro è un’operazione, secondo me, impossibile anche per chi volesse farla, perché la tutela degli spazi sociali coincide col massimo di sviluppo delle libertà individuali nel nostro Paese. Non sarebbe un’operazione semplice per chi volesse tentarla e, questo sì, aprirebbe un processo di involuzione democratica.
Io da tempo ho cercato di compiere una distinzione, che adesso, mi pare, sta diventando più comprensibile. La distinzione tra l’oggetto, la tutela del bisogno e gli strumenti. La mia domanda (ma mi sembra che sia anche la vostra, tanto che potremmo discuterla in convegni comuni invece che divisi), la mia domanda è: come, all’interno dell’ordinamento, possa ridursi lo spazio di burocratizzazione che genera l’inefficienza, per non parlare d’altro, e conservare invece la tutela del bisogno. Con molta franchezza, avendo individuato il problema, io non mi sentirci di dire: questa è la soluzione istituzionale che lo risolve. Avevo pregato De Rita, negli anni passati, di simulare delle forme tecniche di soluzione di questo problema. E mi sembra che con Donat-Cattin avevamo trovato un punto di incontro, proprio a proposito del decreto fatto sui cosiddetti tickets. Con Donat-Cattin avevamo trovato l’intesa secondo me giusta, (di questo nessuno ha parlato, si è parlato solo della parte fiscale del decreto, non della proposta strutturale innovativa) di anticipare con alcune norme la modifica del sistema dell’organizzazione sanitaria per sollecitare il Parlamento a provvedere poi con legge ordinaria alla sistemazione definitiva del nuovo servizio sanitario. Adesso leggo che a Bologna il Partito Comunista, che negli anni passati si era impiccato su una concezione tutta burocratizzata della sanità, decide di muoversi proprio nella nostra logica, proponendo un criterio che fra l’altro è contenuto nella legge di riordino dei poteri locali. Una legge di grande valore innovativo, perché non ipotizza l’esercizio di tutte le facoltà da parte dell’ente locale, ma affida al Comune la possibilità di organizzare i servizi in rapporto ai bisogni della comunità, lasciandolo libero di farlo nella maniera più efficiente. Per cui può ricorrere all’azienda pubblica se non c’è chi gestisce un determinato servizio, ma se c’è chi lo gestisce lo affida, in termini di convenienza economica, a chi sa farlo.
Scoprire che le affissioni possono essere affidate a un privato e non a otto impiegati del comune, i quali anziché affiggere i manifesti fanno cose diverse, scoprire questo non è difficile.
Il problema è operare una distinzione tra oggetto, o bisogno da tutelare, e strumento. Né io immagino che noi dobbiamo stabilire con una norma che il servizio debba essere fatto per forza da privati.
Mi e capitato di dire, in alcune circostanze, ma soprattutto al Convegno dell’Anci a Torino, l’anno scorso, che così facendo noi avremmo la possibilità, amici della Democrazia Cristiana, di recuperare un altro valore forte della tradizione dei cattolici. La esperienza delle Casse di Risparmio e delle Opere Pie, in fin dei conti, era proprio la utilizzazione di un patrimonio in funzione della soddisfazione di un bisogno senza fine di lucro.
E paradossalmente, potremmo creare nel mercato una competizione tra chi organizza il servizio per speculare e chi organizza il servizio in funzione dell’interesse dei cittadini. Il capitale pubblico, allora, non assume il significato di alimento della burocratizzazione inefficiente, ma dà vita ad un’azienda che, non avendo fini di lucro, ha la possibilità di utilizzare le risorse in più, che il privato certamente sottrae per il profitto a cui mira, in maniera da qualificare meglio il servizio. Ma la regola dell’efficienza viene data dall’offerta in concorrenza, non è data dalla pubblicizzazione di gestione. Una regola deve sempre esserci. Se fosse vero che il mercato da solo risolve tutti i problemi, non si riesce a capire perché il mercato selvaggio quando c’era ne ha creati tanti, provocando anche il prevalere di risposte sbagliate, come quelle del marxismo. E allora, amici della Democrazia Cristiana, amici della sinistra democratica cristiana, credo che questo può essere, almeno questo, un punto di accordo. Poi vedremo come gestirlo, poiché io sono convinto che le società, più si sviluppano e più questi problemi fanno emergere, scoprendo di volta in volta nuove forme di bisogni non tutelati. Non c’è una politica economica che come tale, di per sé, risolve i problemi di chi è emarginato dal processo di trasformazione. Tutti i processi di trasformazione anzi hanno la tendenza a generare nuovi fenomeni di emarginazione.
Il ruolo dei partiti popolari allora è garantire il processo democratico, reimmetlendo continuamente quelli che il processo di trasformazione emargina al centro del sistema, senza la pretesa che questo avvenga una volta per sempre, ma scegliendo sempre tutti quelli che sono emarginati e tutelandoli all’interno di questa visione generale. Questa era la concezione del partito popolare di Sturzo, e questa è la ragione di fondo per cui la Democrazia Cristiana è, ancora oggi, una forza centrale nell’equilibrio politico del nostro Paese. Queste motivazioni però sì sono notevolmente disperse nella nostra convinzione e nella nostra memoria. E questo tipo di impegno appare spesso sempre più lontano dalla quotidianità dei nostri comportamenti politici. Io credo che tutto il partito debba recuperare questa capacità. Però credo che se come sinistra ci facciamo carico di assumere un’iniziativa che aiuti il partito a ritrovare questa capacità, noi avremo dato un aiuto notevole non solo alla sinistra, nè solo alla Democrazia Cristiana: noi avremo dato un contributo a far uscire il Paese da una crisi grave, probabilmente più grave di quanto noi non immaginiamo.