Ricordo di Ruggero Orfei
di Giorgio Aimetti
di Giorgio Aimetti
La scomparsa di Ruggero Orfei ha generato in me grande tristezza anche in tempi nei quali la tristezza è la cifra del nostro vivere quotidiano.
Orfei era un personaggio importante per la storia dei cattolici democratici e sociali. Per noi che vivevamo nel partito, aderenti a Forze Nuove, come in una ridotta ben munita, lui era un personaggio che aveva svolto un ruolo chiave: tra i fondatori di Settegiorni, ne era stato il direttore responsabile per tutto il tempo della pubblicazione. Insomma, era quasi il responsabile di un settore culturale che non era certo appartenente alla corrente, ma che nella corrente aveva riferimenti, e aveva peso politico.
Pur frequentando la corrente già in quei giorni, non lo avevo conosciuto di persona, limitandomi a quel tipo di rapporto che lega lo scrittore e il lettore e che non esaurisce evidentemente le relazioni necessarie per fare di un conoscente un confidente.
L’ho conosciuto solo qualche anno fa, quando lo avevo intervistato per conto della Fondazione Carlo Donat-Cattin nella sua casa di Roma. Insieme con Mariapia Donat-Cattin lo avevamo cercato per indagare e mettere punti fermi sul “caso Settegiorni”. Ne era venuto fuori un lungo colloquio nel quale in fin dei conti l’argomento principale non erano state le varie personalità di altissimo livello che collaboravano con la rivista, quanto la figura e il ruolo di Carlo Donat-Cattin.
Era un tasto sensibile per me, dal momento che sono stato sempre impegnato nella ricerca di fatti, pensieri e argomenti relativi al leader di Forze Nuove. Orfei ne ricordava non solo l’intelligenza e la nettezza politica (che avrebbe poi portato i due a diversi orientamenti nell’ambito della Dc) ma anche la straordinaria dimensione culturale che lo caratterizzava.
In particolare, il suo essere cattolico, ma non clericale. Una caratteristica che Orfei non mancava di ricordare accennando al diniego di Donat-Cattin a sottoscrivere il manifesto degli uomini di cultura cristiani per il no al referendum sul divorzio. Un rifiuto motivato evidentemente da ragioni politiche (il leader di Forze nuove, allora assai popolare e influente, non avrebbe potuto fare quella scelta senza uscire dal partito; e quel trauma era stato accantonato in modo definitivo fin dal 1968), ma anche da motivi ideologici legati al suo rapporto con la fede.
A Orfei che gli diceva di essere stato avvicinato da monsignori di curia che gli chiedevano l’assenso a un documento contrario al referendum (conoscendo la sua contrarietà alla consultazione), come strumento per influire sulle gerarchie spingendole ad evitare un confronto che difficilmente sarebbe stato vincente sul piano numerico, ma perdente comunque sul piano culturale e del costume, Donat-Cattin aveva detto di non poter farlo: «non sono un clericale», aveva sostenuto.
Una risposta sibillina fino a un certo punto: evidentemente Donat-Cattin non voleva essere responsabile di portare un dibattito interno alla Chiesa al centro della politica nazionale. Il suo prestigio, che a quel tempo era molto alto, avrebbe finito per causare una disgregazione non solo politica, quanto religiosa, in un mondo che sentiva prossimo a subire crisi profonde col mutare dei tempi.
In quell’intervista si era poi parlato di Settegiorni in modo più approfondito. Si erano ripercorsi i momenti della sua esistenza e della crisi (che sarebbe divampata proprio nei giorni del referendum sul divorzio). Orfei confermava che la posizione della rivista, a favore del no, non era stata la causa della fine delle pubblicazioni. I motivi, ben più banali, erano quelli economici. Il settimanale era ormai troppo costoso per tutti, in particolare per gli esigui fondi della corrente. E le conseguenze dirompenti dell’esito referendario rendevano superfluo più ancora che inutile il proseguire delle pubblicazioni.
Nel momento della prima diaspora dei cattolici (seguente al referendum e alle elezioni amministrative del 1975) quella che aveva portato molti uomini di cultura a uscire dai contorni della Dc per inserirsi a vario titolo, in modo ben più organico, nei partiti della sinistra (dal Psi al Pci), Orfei non aveva seguito quella tendenza. Sarebbe rimasto vicino comunque all’area democristiana, al punto da diventare l’uomo di pensiero di De Mita negli anni della sua segreteria.
Questo ovviamente resta un aspetto della vicenda politica ed umana di Orfei che io non avevo condiviso, ma che era comunque una scelta che lo teneva vicino al modo di pensare e di agire dei cattolici democratici.