Paolo Donat-Cattin e Settegiorni

A dieci anni dal 17 marzo del 2012, giorno in cui Paolo ci ha lasciati, a noi piace ricordarlo così.

Mio fratello Paolo era un geniaccio. L’unico di noi davvero bravo in matematica, aveva superato al primo colpo gli esami di analisi matematica 1 e 2 ad Architettura, che al tempo erano gli stessi di Ingegneria. Avrebbe potuto avere un futuro come calciatore se non fosse incorso, per le sue intemperanze scolastiche, nella punizione di nostro padre. Ma soprattutto era un artista. Il suo talento nel disegno e nella pittura era emerso fin da quando era ragazzo. Crescendo aveva approfondito le sue conoscenze nei campi che più gli erano congeniali: arte, grafica, design, poi anche musica, cinema, teatro. Uno spirito libero e ribelle. Sicuramente un forte ascendente su di lui lo aveva esercitato lo zio Antonio, uno dei fratelli di nostro padre, che per tutti noi era un ‘mito’. Anche lui un geniaccio, un artista nonché un valente giornalista e soprattutto un grafico raffinatissimo.

Nel 1967, con questo bagaglio di conoscenze e di passioni, Paolo Donat-Cattin approdò a Settegiorni. Aveva 22 anni. Il suo contributo non mancò mai sino all’ultimo numero di questo straordinario settimanale. Nella raccolta, interamente digitalizzata e pubblicata sul nostro sito, si trovano solo due articoli – quello dedicato a Helenio Herrera è davvero divertente e ironico – che portano la sua firma. Forse ne aveva scritti altri utilizzando uno pseudonimo come usavano fare i giornalisti e i collaboratori di Settegiorni. Una cosa è certa: il ruolo preminente che Paolo svolgeva, con entusiasmo e determinazione, nella costruzione della rivista era un altro e per nulla secondario. Ruggero Orfei, in una video intervista del 2017 – condotta da Giorgio Aimetti e conservata in Fondazione – pronunciava parole di elogio non formale nei confronti della bravura e dell’intelligenza concreta e creativa di Paolo, sottolineando quanto il suo lavoro fosse importante per la buona riuscita della rivista di cui lui era il Direttore.

Giuseppe Di Salvo, una delle firme di Settegiorni – di articoli con la sua firma ce ne sono tantissimi – collega e amico di Paolo, molto generosamente ha risposto alla richiesta che gli ho rivolto il 13 marzo, giorno del compleanno di mio fratello, quando mi è balenata l’idea di fare qualcosa che lo ricordasse. Ecco qui il suo ‘pezzo’, scritto sull’onda dei ricordi, un pezzo vivo e bellissimo.

Mariapia Donat-Cattin

 

Paolo Donat-Cattin, Povero Vietnam, 12 gennaio 1966

Non solo un grafico ma un giornalista intero

La Redazione di Settegiorni. Due stanze con un balcone affacciato sulla Politica che entrava e usciva da Montecitorio o bighellonava nella piazza prima di andare nelle varie osterie (c’erano ancora!) nei vicoli dei dintorni.

Il giorno prima di ‘andare in macchina’, cioè di andare alla Tipografia sulla Tiburtina, era un giorno lungo. Si finiva a sera o addirittura a notte inoltrata. Erano le ore della settimana in cui chi comandava erano due colleghi, non i due direttori, Piero Pratesi che doveva scrivere l’editoriale definitivo, e Ruggero Orfei, che cercava di mettere fine al suo interminabile articolo di politica estera o interna, né noi redattori che i nostri articoli li avevamo già scritti. I ‘padroni’ in quelle ore erano il capo redattore Michele Torre e Paolo Donat-Cattin. Il primo con un’esperienza di primo piano nel giornalismo dei quotidiani torinesi (Gazzetta del Popolo e La Stampa-Stampa Sera di cui fu anche Direttore); il secondo, il più giovane di noi, alle prime armi, ma che doveva ‘mettere il vestito’ alla rivista. Michele e Paolo non avevano quasi mai messo la loro firma sotto un articolo. Anch’essi, però, come tutti noi usavano pseudonimi per segnare alcuni servizi. Non si voleva ‘inflazionare’ la firma: non era bello, ad esempio, mettere il proprio nome su un evento di costume nel numero in cui magari si era fatto un ampio reportage su un evento internazionale. Ma queste sono cose che succedono, o almeno succedevano, in tutta la carta stampata.

Ma se la loro firma appariva molto raramente, quello di Michele e di Paolo, su piani diversi, era un ruolo di primo piano dal punto di vista giornalistico: dare ordine alle cose, dare importanza a un articolo, a una inchiesta, inventare un titolo che fosse accattivante, ma non fuorviante e non banale (come spesso succede nelle riviste e oggi purtroppo anche nei quotidiani).

A Paolo, in particolare, spettava la ‘veste grafica’. Il lavoro dello stilista, ma non solo. Paolo aveva studiato architettura, aveva il gusto delle cose belle, delle cose curiose, anche strane. La copertina. La cosa più difficile da inventare, come la faccia di una persona, con maschera o senza maschera. Non so come Paolo sia arrivato alla scoperta della miniera di immagini con cui spesso costruiva le sue copertine. Forse le era stata indicata dal fratello di suo padre Carlo, lo zio Antonio, giornalista del Tg2, ma soprattutto grafico intelligente e raffinato. Si trattava di una rivista inglese, very british.

Paolo doveva trovare in quelle ore ansiogene dell’ultima sera il disegno che fosse un messaggio per il lettore. Talvolta un’allusione a un fatto italiano o estero, o a un personaggio della vita politica o comunque pubblica italiana o estera. Non una semplice caricatura, ma l’immagine che mettesse a fuoco un messaggio o semplicemente una notizia. Era anche un po’ una chiave per aprire la rivista.

La scelta dell’immagine e magari del titolo che la accompagnava e ne dava il senso non era una decisione puramente grafica, era una decisione giornalistica. E sul far della notte quella immagine di copertina diventava oggetto di discussione, l’ultima della settimana di lavoro: sarà chiara la notizia a cui si vuole dare rilievo? Sarà chiaro il messaggio che si vuole trasmettere? Paolo era orgoglioso e sicuro della sua immagine trovata su una rivista inglese lontana dalle cose e dagli uomini che venivano raccontati su Settegiorni. Un’immagine che però doveva diventare pertinente, precisa, giornalisticamente valida. Discussioni a volte lunghissime, corali, ma alla fine restava la copertina che Paolo aveva inventato.

Non un grafico, ma un giornalista intero, quindi. Anche perché in un quotidiano, in una rivista, in un telegiornale è sempre il contributo di tutti quel che conta, figuriamoci in un settimanale come Settegiorni dove la partecipazione era lo stile professionale e culturale. E sulle scelte degli argomenti da affrontare, il ‘taglio’ da dare a un’inchiesta, l’utilizzo o meno dei reportages dei colleghi francesi del Nouvelle Observateur, di cui Settegiorni aveva il Copyright, sulle immagini da utilizzare, sui titoli, le diciture delle fotografie e su tutte le altre cose che hanno a che fare con l’informazione, il coinvolgimento era totale.

E Paolo era con tutti noi sulla barricata di un giornalismo che, sotto certi aspetti, fu innovativo, coraggioso e colto nel panorama italiano.

Giuseppe Di Salvo

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