Che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati
Liliana Segre (Bruxelles, 29 gennaio 2020)
Liliana Segre (Bruxelles, 29 gennaio 2020)
Il commovente discorso pronunciato della Senatrice Liliana Segre al Parlamento europeo a Bruxelles nel corso della cerimonia di commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Liliana Segre era una bambina quando è stata deportata, a 13 anni ha lavorato come operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union. Durante la prigionia è stata sia nel campo di concentramento di Birchenau che in quello di Auschwitz. Dopo il 27 gennaio insieme a 50.000 prigionieri prende parte alla “Marcia della morte”: i prigionieri non più in condizioni di proseguire venivano uccisi sul posto.
Devo per forza cominciare con i ringraziamenti: il mio amico Sassoli che mi ha invitato e tutto il Parlamento. Vorrei anche salutare i parlamentari inglesi, ci stanno lasciando con grande dispiacere di tutti, e non nascondere l’emozione, profonda, entrare in questo Parlamento europeo dopo aver visto all’ingresso le bandiere, le bandiere colorate di tanti stati affratellati nel Parlamento europeo dove si parla, si discute, ci si guarda negli occhi.
Non è stato sempre così, e la giornata del 27 di gennaio è una giornata a volte ripetuta troppo, ancora ripetuta, basta che ancora si parli di 27 di gennaio, dando al 27 di gennaio un’importanza che in fondo non è, che Auschwitz sia stato liberato quel giorno.
L’Armata rossa è entrata, ed è molto bella descrizione che fa Primo Levi ne La tregua di questi quattro soldati russi che aprono e si trovano davanti – senza liberare niente perché i nazisti erano già scappati da tanti giorni – si trovano di fronte questo spettacolo incredibile.
Al momento ai loro occhi, e poi più tardi, molto più tardi, diventò uno spettacolo incredibile per chi lo volle guardare, qualcuno non lo vuole guardare neanche adesso, dice che non è vero.
È lo stupore, lo stupore per il male altrui sono queste parole straordinarie di Primo Levi, perché questo stupore per il male altrui nessuno che è stato prigioniero ad Auschwitz l’ha potuto mai dimenticare un secondo della sua vita. Lo stupore perché altre persone che non sono pazze, che non vengono da un mondo lontano ma sono tuoi fratelli europei hanno pensato per te. Ma il 27 di gennaio io avevo allora 13 anni ed ero operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union, fabbrica che c’è tuttora, dove facevamo bossoli per mitragliatrice. Di colpo in fabbrica dopo che avevamo sentito scoppi lontani, che lavoravano e la città di Auschwitz e sentivamo e sapevamo che le cose, stavano succedendo a Birchenau, dove ero stata fino a pochissimo prima, e venne il comando immediato dalla fabbrica stessa di cominciare quella che fu chiamata la marcia della morte, perché io non fui liberata il 27 di gennaio dall’Armata rossa, io facevo parte di quel gruppo di più di 50 mila prigionieri ancora in vita, che eravamo stati obbligati in quelle condizioni fisiche, senza parlare di che cosa erano quelle psichiche, di cominciare quella marcia che durò mesi e di cui si parla pochissimo, la marcia della morte.
Quando parlo nelle scuole da nonna, come parlo da nonna da trent’anni a questa parte, dico che ognuno deve una gamba davanti all’altra nella vita, non appoggiarsi mai a nessuno, perché nella marcia della morte non potevamo appoggiarsi appoggiarci al compagno vicino che si trascinava sulla neve coi piedi piagati come noi e che veniva finito dalle guardie della scorta se fosse caduto, ucciso nessuno poteva rimanere lì su quelle strade che traversavamo. Come si fa come, si fa in quelle condizioni, perché la forza della vita è straordinaria e questa che bisogna trasmettere ai giovani di oggi che sono mortificati dalla mancanza di lavoro, mortificati dai vizi che ricevono dai loro genitori molli, per cui tutto è concesso, mentre la vita non è così, la vita poi ti prepara a questa marcia che deve diventare marcia per la vita.
Noi non volevamo morire noi eravamo pazzamente attaccata alla vita, qualunque fosse, per cui una gamba davanti all’altra, buttarci sull’età mai mangiare qualunque schifezza, qualunque cosa, mangiare la neve dove non era sporcata dal sangue, non domandarci più nient’altro che, andare avanti camminare e camminare.
Era il male altrui, le finestre erano chiuse, attraversammo, all’inizio fu Polonia Alta Slesia poi fu Germania e quando mesi dopo aver passato mesi e mesi, altri lager, altri orrori, altri mali Ravensbrück un Jugendlager che si chiamava Jugendlager perché in effetti, eravamo giovani ma, sembravamo vecchi, senza sesso, senza età, senza seno, senza mestruazioni, senza mutande, non si deve aver paura di queste parole perché è così che si toglie la dignità a una donna, è così.
Abituate ormai a sopravvivere, perché c’era qualche cosa dentro di noi che ci diceva, avanti avanti avanti avanti avanti avanti e giorno dopo giorno, campo dopo campo, io mi ritrovai alla fine del mese di aprile del 1945. Pensate in quella situazione quanto era lontano il 27 di gennaio, quindi stato fisico, morte di compagne perdute in quella marcia, rimaste lì senza potersi alzare, non soccorse mai da nessuno, perché nessuno aprì la finestra, buttò un pezzo di pane, c’era la paura, era la paura che faceva sì che la scelta fosse di pochissimi, perché non si parla quasi mai di questi straordinari che hanno fatto la scelta, si dà per scontato che popoli interi siano stati colpevoli, perché non fu solo il popolo tedesco, fu tutta l’Europa occupata dai nazisti, parliamo della Francia, parliamo dell’Italia non so molto di altri stati in cui, i nostri vicini di casa furono degli aiuti straordinari per i nazisti, io parlo dell’Italia dove abbiamo visto purtroppo i nostri vicini di casa che ci denunciavano, che prendevano possesso del nostro appartamento, del nostro ufficio, anche del cane qualche volta, perché era un cane di razza, il cane era di razza, questa parola razza che ancora la sentiamo dire e per questo dobbiamo combattere questo razzismo, questo razzismo strutturale che c’è ancora, che c’è, la gente mi chiede ma come mai ancora si parla di antisemitismo, la gente mi domanda. Va bene che sono vecchissima nel mio novantesimo anno di età, ma non sono quella che sa perché c’è ancora l’antisemitismo, perché ancora c’è razzismo, ma perché c’è sempre stato, perché era solo, non c’era il momento politico per poter tirar fuori l’antisemitismo e il razzismo che sono insiti nell’animo dei poveri di spirito, si è così. Poi arrivano i momenti corsi, ricorsi storici, arrivano i momenti più adatti, arriva nei momenti in cui ci si volta dall’altra parte, in cui è più facile di nuovo far finta di niente, è più facile guardare il proprio cortile, ma è una cosa che non mi interessa, ma perché mi deve interessare, non mi riguarda. Allora tutti quelli che approfittano di questa situazione trovano il terreno adatto per farsi avanti.
La guerra non si fermò come sappiamo e prima di essere stata liberata dagli alleati nel nord della Germania, arrivò il primo maggio del 1945. La condizione degli ebrei fu analoga nei paesi occupati alleati dei nazisti, fu analoga di fatto se non di diritto, quelli erano stati e si erano profondamente sentiti, gli ebrei di allora, cittadini patrioti tedeschi, italiani, francesi, ungheresi, si erano battuti nelle guerre e io mi ricordo mio padre e mio zio che erano stati ufficiali nella Prima guerra mondiale, quanti ebrei tedeschi piangevano, si suicidarono perché si sentivano tedeschi più di ogni altra cosa,
Questa espulsione dalle comunità nazionali fu dolorosissima, fu qualche cosa che andava molto al di là delle leggi, perché era appunto era il tuo vicino di casa. Io, una bambina diventata invisibile, è questo, e questo mi è successo. Subito dopo la guerra quando io per caso rimasi viva e tornai nella mia Milano, con le macerie ancora fumanti, incontrai delle mie compagne di scuola che non mi avevano visto più, perché nel 1938 avrei dovuto fare la terza alimentare. Ero evidentemente un pericolo molto grave, sia per i fascisti che per i nazisti, per cui decisero che i bambini ebrei di quella piccola comunità degli ebrei italiani, pochi, 38-40 mila persone, quindi una piccola comunità che fu vittima per un per un terzo almeno della shoah, era assolutamente introdotta nella società, non si sentiva assolutamente diversa. Queste compagne rincontrate dopo 3-4 anni mi dissero “dove si è andata a finire che non ti si è più vista a scuola” io ero una ragazza ferita, ero una ragazza selvaggia, una ragazza che non sapeva più mangiare con la forchetta e il coltello, perché ancora ero abituata a fressen nicht tessen [mangiare non mangiare] che voleva dire come le bestie che mangiano fressen nicht tessen, e come tale ero bulimica, e come tale ero anche disgustosa, e come tale ero criticata, anche da quelli che mi volevano bene, volevano di nuovo la ragazza borghese con la buone educazione familiare.
È difficile ricordare queste cose, devo dire che da trent’anni io parlo nelle scuole e sento ormai come una difficoltà psichica molto forte di continuare, anche se il mio dovere è questo, sarebbe questo fino alla morte, visto che io ho visto quei colori, ho sentito quegli odori, ho sentito quelle urla, ho incontrato delle persone in quella babele di lingue che oggi non posso che ricordare qui dove tante lingue si incontrano in pace, perché era possibile comunicare con le compagne che venivano da tutta l’Europa occupata dai nazisti, solo trovando delle parole comuni, perché se no la solitudine assoluta del silenzio, di non poter scambiare una parola con l’altro, derivava da qualche isolamento ancestrale delle comunità che non si erano riunite in parlamenti, visto che l’Europa da secoli litigava in modo spaventoso
Chiunque abbia studiato la storia sa che è adesso, da 75 anni, un periodo assolutamente incredibile, mentre, tutto il passato ha fatto sì che i popoli a volte non si conoscessero.
E le bandiere, e le bandiere fuori che ricordavo all’inizio, mi hanno fatto proprio ricordare quel desiderio di trovare con le olandesi, con le francesi, con le polacche, con le tedesche, con le ungheresi, una parola comune per esempio dell’ungherese ho imparato una sola parola che era pane, kenyér si dice in ungherese ed è la parola principale che vuol dire fame ma che vuol dire anche sacralità, di una cosa che viene sprecata, oggi senza neanche guardare che cosa si butta via.
Io da tre anni almeno sento che i ricordi di quella ragazzina che sono stata, mentre oggi sono una vecchia di 90 anni, non mi danno pace, non mi danno pace perché da che sono diventata nonna io, 32 anni fa di mio nipote, uno dei miei tre nipoti, per fortuna ne ho tre, oltre che tre meravigliosi figli, e che il Parlamento europeo e la “non mia estinzione” mi sembrano in questo momento lo stesso miracolo, non so se sbaglio. Ma immodestamente, immodestamente, quella ragazzina lì, quella ragazzina lì che ha fatto la marcia della morte in quella li che ha brucato nei letamai, quella lì che non piangeva più, quella lì che cercava la parola comune, quella lì è un’altra da me, e io sono la nonna di me stessa, sono una nonna che quando mi rivolgo ai miei nipoti che hanno un dispiacere d’amore, o di studio, o di mancato raggiungimento di qualche cosa che loro vorrebbero raggiungere, sono una nonna amorosa, sono una nonna molto presente, sono una nonna grata al fatto di essere anche “non miracolo eccezionale” per una che doveva morire, beh io sono nonna anche di me stessa, ed è una sensazione che a volte non mi abbandona, quando io ho finito di parlare nelle scuole, a volte io parlo a migliaia di ragazzi tutti insieme, due o tremila, e quindi è il mio dovere di testimone, parlare e non posso che parlare di me e delle mie compagne, sono io che saltò fuori, quella ragazzina, magra, scheletrita, disperata sola. E non la posso più sopportare, perché sono la nonna di me stessa e sento che se non smetto di parlare, e se non mi ritiro quel tempo che mi resta a ricordare da solo a godere delle grandi gioie della mia famiglia ritrovata, non lo potrò più fare comunque, perché non ce la farò più, e quindi anche oggi fatico a ricordare, ma mi è sembrato un grande dovere accettare questo invito, e avere questa occasione per ricordare il male altrui, ma anche per ricordare che si può, una gamba davanti all’altra, essere come quella bambina di Terezín che chi andrà a Praga o c’è già stato e ha visitato il Museo dei bambini che a Terezín potevano fare le recite o colorare coi pastelli e che poi un giorno furono tutti deportati e uccisi ad Auschwitz per la colpa d’esser nati, perché erano bambini, quindi non potevano aver fatto del male a nessuno, c’è una bambina di cui non ricordo il nome che ha disegnato una farfalla gialla che vola sopra i fili spinati, io non avevo le matite colorate e forse non avevo mai avuto la fantasia meravigliosa della bambina di Terezín.
“Che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati” è questo è un semplicissimo messaggio da nonna che io vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali che siano in grado di fare la scelta, e con la loro responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra i fili spinati.
Bambini nel campo di concentramento di Auschwitz