Giorgio Aimetti
Carlo Donat-Cattin
La vita e le idee di un democristiano scomodo
Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2021
540 pp.
Ean 9788849868777
Giorgio Aimetti
Carlo Donat-Cattin
La vita e le idee di un democristiano scomodo
Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2021
540 pp.
Ean 9788849868777
Lo Statuto dei lavoratori ha ormai più di mezzo secolo di vita. Figlio della lotta sindacale dell’autunno ’69 era nato dallo sforzo congiunto di più protagonisti: Silvio Brodolini, ministro del Lavoro nel 1968 e 1969, Gino Giugni, responsabile con lui dell’ufficio studi del ministero e molti anni dopo anch’egli ministro del Lavoro, e Carlo Donat-Cattin che nel 1969 succedeva a Brodolini, deceduto proprio nei giorni in cui il governo varava il suo disegno di legge. Il provvedimento era destinato a segnare le nuove regole che avrebbero caratterizzato la dialettica tra le parti sociali, garantendo ai dipendenti l’uso dei diritti costituzionali anche all’interno delle fabbriche.
In una fase tanto convulsa, con il ministero del Lavoro che assisteva al via vai di sindacalisti, imprenditori, fotografi, giornalisti, economisti e sociologi, c’era anche stato il tempo per seguire l’evoluzione parlamentare del progetto di legge.
Esso veniva approvato al Senato proprio nei giorni cruciali della trattativa per il rinnovo dei contratti dei metalmeccanici. Avrebbe ricordato in proposito Donat-Cattin: «Senza dubbio lo Statuto non è altro che una legge democratica, l’affermazione del pieno diritto dei lavoratori ad essere cittadini italiani in ogni parte del territorio nazionale ed in ogni loro funzione. È una legge che dà il valore, spesso non riconosciuto, del passaggio notevole che è intervenuto, nel pur faticoso arco quasi quindicennale della politica di centro-sinistra nel nostro Paese. A posteriori, credo che questo periodo non abbia eguali nella recente storia italiana come dislocazione del potere sovrano […]. Noi possiamo dire che, nel quadro della Costituzione repubblicana, i conflitti, gli scontri, le composizioni, tutto quello che caratterizza la lotta democratica, questa dislocazione è avvenuta per via democratica. Lo Statuto è una legge importante perché fissa alcuni principi che contano anche, anzi soprattutto, nelle fasi di riflusso» [Intervento di C. Donat-Cattin al convegno Giacomo Brodolini e la politica italiana degli anni ’60].
Il complesso dei miglioramenti economici [durante l’autunno caldo] appariva tutto sommato all’interno della logica tradizionale del rapporto tra datori di lavoro e prestatori d’opera: l’aumento dei consumi, conseguente agli incrementi delle retribuzioni, avrebbe addirittura garantito una maggiore redditività e migliori profitti. La conflittualità dei mesi successivi ai contratti avrebbe solo in parte vanificato quelle speranze.
Ciò che cambiava fortemente i rapporti di forza era invece l’aspetto normativo, che da quel momento avrebbe impedito l’uso delle armi tradizionali del padronato, a cominciare dagli strumenti di pressione a carico dei lavoratori (come i provvedimenti disciplinari, quando non addirittura il licenziamento) utilizzati più volte nelle precedenti contrattazioni.
[…]
Lo Statuto che cercava di portare la forza dello Stato (con le sue leggi) nel conflitto sociale era da molti sottovalutato. Molti leaders della contestazione di quegli anni, tanti esponenti della Cisl credevano di poterne fare a meno. Secondo loro, le lotte operaie avrebbero dovuto svilupparsi dalla base, secondo nuove forme che trovassero limite solo nella convenienza e nell’opportunità. Le conquiste operaie realizzate in quei giorni sembravano indicare che la forza dei lavoratori era sufficiente a vincere quello scontro. […]
[Quando Donat-Cattin parlava al Senato] Era il 9 dicembre del 1969, il giorno dopo la firma del contratto con i metalmeccanici dell’Intersind, tre giorni prima della strage di Piazza Fontana, dodici giorni prima della firma del contratto con i metalmeccanici della Confindustria. […]
Il ministro del Lavoro interpretava la volontà del governo ma anche del Parlamento che doveva esprimersi in merito. Il suo argomentare era ridondante e ricco di enfasi, in linea con il momento storico; un esempio di oratoria istituzionale che va riletto.
Diceva: «Il Governo della Repubblica ritiene che sia più urgente che mai favorire il cambiamento degli equilibri sociali non solo per porre rimedio a squilibri atavici che mortificano il valore dell’uomo e che per primi si volevano sostenere, ma per assicurare un ritmo futuro del cambiamento sociale parallelo al ritmo impresso dal progresso tecnico allo sviluppo economico. Favorire lo sviluppo di cambiamenti sociali che spostino a livelli più avanzati l’equilibrio generale della società significa fornire la prova concreta che gli ordinamenti della Repubblica vogliono un progresso sociale e non la conservazione di secolari squilibri. Per queste ragioni il Governo deliberatamente sceglie di intaccare norme, consuetudini e comportamenti che nella sostanza consentivano e consentono l’accrescimento del potere di una parte a danno dell’altra parte». […]
Più tardi lo Statuto sarebbe stato ritenuto causa del ripiegamento economico della nostra industria e Donat-Cattin sarebbe stato accusato di essere stato il responsabile di quel prodotto parlamentare. Tuttavia la legge passò al Senato con il voto favorevole della Dc, dei socialisti, dei socialdemocratici, ma anche dei liberali. I comunisti si erano astenuti solo perché reclamavano ulteriori allargamenti dei diritti (come ad esempio l’assemblea politica in fabbrica). […]
Nel disegno di legge varato in prima lettura a Palazzo Madama erano cambiati alcuni aspetti del testo preparato da Brodolini e dai suoi collaboratori: aspetti anche importanti.
Donat-Cattin accettava, per esempio, e si faceva anzi promotore del controverso articolo 18. Nel suo discorso al Senato ricordava: «nel dibattito in Commissione […] si è stabilito che il licenziamento non si può in alcun modo vendere». […]
Con l’introduzione dell’articolo 18, Donat-Cattin sapeva di essere in presenza di un atto di forza. Il ministro sottolineava però che i tempi a disposizione per approvare il provvedimento a favore dei lavoratori erano ristretti, prevedeva che presto ci sarebbe stata una controffensiva della destra. A Giugni, che, perplesso, gli chiedeva se ritenesse possibile adottare un provvedimento di quel tipo, diceva: «In questo momento si può fare tutto». […]
Il suo schierarsi per la causa dei subalterni era spontaneo, non da pauperista. Vedeva nei lavoratori la forza organizzata in grado di spostare anche gli equilibri nella società.
Certo, il 18 maggio del 1990, tornato dopo quasi vent’anni al ministero del Lavoro, in un convegno al Cnel affermava: «Lo Statuto è figlio del suo tempo. Oggi noi viaggiamo verso un periodo nel quale l’antica aspirazione alla stabilità del posto di lavoro, che allora era propria di qualsiasi operaio e impiegato, è posta radicalmente in discussione dai modi diversi con i quali si pone la produzione». Dal punto di vista economico, la fine degli anni Ottanta erano tempi d’oro, poi sarebbero arrivate le conseguenze di Mani pulite, quindi la crisi del 2008 e quella del 2011-13. E le cose, figlie del suo tempo, sarebbero ancora cambiate.
[…] Il voto definitivo era dato nel maggio 1970. Il testo posto all’approvazione [della Camera] era quello del Senato, non c’era tempo per discutere emendamenti. Donat-Cattin nel suo intervento completava il quadro ideale in cui si collocava il provvedimento.
C’era stato anche lo spazio alla commozione e al riconoscimento per gli avversari di sempre. Accadeva nel momento in cui il ministro parlava della Fiat e delle «migliaia di licenziamenti niente affatto disciplinari, nel senso che non erano affatto riconducibili a violazioni di norme disciplinari, ma si trattava di licenziamenti politici, punitivi: insomma vi fu ogni sorta di attacco contro il libero manifestarsi della vita sindacale, al punto che io so che di fronte all’approvazione di questa legge anche alcuni nostri colleghi, come l’onorevole Sulotto, oggi si sentono commossi ricordando questo loro passato, che è poi il passato di tanti militanti della Cgil, di tanti militanti della Cisl». […]
Lo Statuto, avrebbe detto ai deputati, rappresentava «un’affermazione dura e precisa dei diritti dei lavoratori che come cittadini partecipano alla Costituzione di una Repubblica fondata sul lavoro e vogliono che sia riconosciuta la possibilità di organizzazione e di manifestazione dei propri interessi, che essi sanno, autonomamente, inquadrare nel contesto degli interessi nazionali e che, attraverso questo strumento legislativo, vengono sostenuti senza briglia per l’affermazione di queste esigenze e di questi ideali».