Proposte di audio-lettura
di Mariapia Donat-Cattin

Andrea del Castagno, Dante, Ciclo degli uomini e donne illustri, 1450. Cenacolo dell’ex convento benedettino di S. Apollonia, Firenze.

Il Dante di Levi – Presentazione

Prima edizione, 1947, Editore De Silva, Centro Internazionale di Studi “Primo Levi”, Polo del 900, Torino

Scrive Cesare Segre nella Postfazione a una delle tante edizioni di Se questo è un uomo: “La zona interna al filo spinato è un inferno” e infernale è tutto lì dentro. “I barbarici latrati dei tedeschi quando comandano” ricordano l’orrido latrato di Cerbero, il custode dell’Inferno. Così come, alla fine del primo capitolo, Il viaggio, ci troviamo di fronte a un moderno Caronte: “Senza sapere come, – ricorda lo scrittore – mi trovai caricato su di un autocarro con una trentina di altri […]. Eravamo senza scorta? […] ci siamo presto accorti che non siamo senza scorta: è una strana scorta. È un soldato tedesco, irto di armi: non lo vediamo perché è buio […]. Accende una pila tascabile, e invece di gridare: «Guai a voi, anime prave», domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro o orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è un’iniziativa privata del nostro caronte”. Continuando potremmo trovare ancora altri riferimenti alla Commedia, in particolare all’Inferno, ma noi vogliamo concentrarci sull’undicesimo capitolo, Il canto di Ulisse che, come sottolinea Segre, è “tutto dantesco”.

Levi viene scelto dal “Pikolo”del suo Kommando – “il fattorino-scritturale addetto alla pulizia della baracca, alle consegne degli attrezzi del campo, alla lavatura delle gamelle, alla contabilità delle ore di lavoro del Kommando”– per il  trasporto della zuppa. Si chiama Jean. È uno studente alsaziano che, data la sua provenienza, parla perfettamente il francese e il tedesco. I due si erano “scoperti nella eccezionale occasione di un allarme aereo” ed erano diventati “amici” ma “il ritmo feroce del Lager” aveva consentito loro solo di salutarsi di sfuggita.

Ritratto di Dante, part. dell’affresco in Palazzo dell’Arte dei Giudici e Notai (Firenze)

Durante il percorso i due giovani riescono a parlare a lungo senza destare sospetti. Parlano delle loro città, Strasburgo e Torino, delle loro case, delle loro madri, dei loro studi, delle loro letture. A Jean piace l’Italia, gli piacerebbe imparare l’italiano e allora Primo pensa che quest’ora non va sprecata. E mentre passano vicino a loro Limentani, il romano, e Frenkel, la spia, e mentre Pikolo accelera il passo (lui sa come comportarsi: rallentare il passo quando si può, allungarlo quando serve) chissà come e perché gli viene in mente Il canto di Ulisse. Così si mette a recitare quanto si ricorda di quel canto. E anche se gli sfuggono parole, versi, passaggi, trova o meglio “sente” quello che non aveva trovato e sentito prima quando lo aveva letto a scuola: “l’infinito orizzonte dell’alto mare aperto, il dovere di essere degni della nobiltà umana, le amate montagne, il destino” [Segre]. Jean è attentissimo, avverte che il messaggio lo riguarda, riguarda loro due che “portano la zuppa sulle spalle” perché “riguarda tutti gli uomini in travaglio”.

E se questo a noi, che non siamo dei dantisti ma solo degli appassionati lettori della Commedia, sembra il commento più alto del XXVI canto dell’Inferno, proponendone la lettura vogliamo rendere omaggio a Dante e a Levi insieme. E vogliamo anche raccontare la storia di un’amicizia. Un’amicizia nata nell’inferno del Lager che durerà nel tempo. Dopo la guerra i due si incontreranno più di una volta in Italia, a Torino (ma anche di fronte al mare Mediterraneo, il mare di Ulisse) dove viveva Primo Levi e a Strasburgo dove viveva Jean Samuel. E si scriveranno. Parte di questa corrispondenza, tutta in francese, verrà riprodotta nel libro-intervista Il m’appelait Pikolo. Un compagnon de Primo Levi raconte (Laffont, Paris 2007; trad. it. Frassinelli, Milano 2008).

Di Jean, o meglio di Jean in quanto Pikolo, Levi mette in rilievo subito che “era un Pikolo eccezionale. Era scaltro e fisicamente robusto, e insieme mite e amichevole: pur conducendo con tenacia e coraggio la sua segreta lotta individuale contro il campo e contro la morte, non trascurava di mantenere rapporti umani coi compagni meno privilegiati”. E, a distanza di anni, il 20 maggio del 1974 nel corso della prima delle tre puntate a lui dedicate dalla trasmissione della Rai Il mestiere di raccontare, lo scrittore, in viaggio verso Strasburgo, gli dedicherà altre parole bellissime. Dirà: Jean, a differenza del Pikolo tipo che di solito aveva 17-18 anni, aveva 22-23 anni ed era “un uomo fatto […] che viveva il campo in piena coscienza ” perché “non si era lasciato bestializzare” rimanendo “un uomo vivo “. Era persino riuscito a procurarsi un Trattato di calcolo integrale e aveva avuto “l’eroismo di studiarselo”. Proprio questo, il fatto che la sera, prima del silenzio, dentro il “fracasso” della “bolgia” infernale della baracca Jean riuscisse a “sequestrarsi nel suo mezzo letto” e a studiare, lo aveva colpito moltissimo. Perché lo aveva sentito simile a sé nella ricerca disperata e tenace di non perdersi, di ritrovare quello che erano stati prima del campo. Così gli aveva chiesto di insegnargli il tedesco e gli aveva offerto di insegnargli l’italiano. Da lì era nato Il canto di Ulisse. Ma non solo. Quella scelta, allora forse non del tutto consapevole, si era reso conto ripensandoci, era stata dettata dall’impulso profondo di “scagliare se stessi al di là di una barriera” proprio come aveva fatto Ulisse attraversando le colonne D’Ercole. E da lì era venuta la scoperta del senso profondo dei versi di Dante, sentendoli come scritti per loro due e per tutti gli uomini in travaglio che a tutti i costi lottano per rimanere uomini.

Domenico di Michelino, Dante e il suo poema, 1465. Affresco nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze

 

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