di Gabriele Druetta – 30 ottobre 2017
«Sei comparsa al portone / in un vestito rosso / per dirmi che sei fuoco / che consuma e riaccende / […]. Percorremmo la strada / che lacera il rigoglio / della selvaggia altura. / Ma già da molto tempo / sapevo che soffrendo con temeraria fede, / l’età per vincere non conta». [“Dialogo”, 12 settembre 1966]
La ragazza alla reception del Polo del Novecento di Torino mi dice di andare avanti e, al tavolo bianco, svoltare a sinistra. Vedo una sala vuota e, al fondo, una piccola donna vestita di rosso. Ha settantotto anni e si chiama Bruna Bianco. Lei è stata l’ultima amante del grande Giuseppe Ungaretti, cinquant’anni fa, quando il poeta ne aveva settantotto e lei ventisei.
Le vado incontro e, con il timore tipico dei giovani, le porgo la mano. Lei mi guarda e mi abbraccia come se mi conoscesse da sempre: «Devi essere Gabriele, il giovane di Torino. Piacere, Bruna».
È l’agosto del 1966 e ci troviamo a San Paolo, in Brasile. Alla fine di un incontro con Ungaretti, come di consueto, si avvicinano in molti; chi per un saluto, chi per un autografo e chi, come Bruna, per donare al grande poeta le proprie poesie, nella speranza di un consiglio.
Bruna è da poco laureata in giurisprudenza e per passione scrive versi. Dieci anni prima si era trasferita in Brasile con la famiglia per seguire l’azienda del padre che produce spumanti e la cui sede principale si trova a Canelli, nell’astigiano, paese natale della giovane.
Ungaretti resta incantato dalla grazia e dalla bellezza dei suoi versi, nonostante l’utilizzo di uno stile antico e ormai in disuso. Lei invece è attratta dalla semplicità delle sue mani; del resto, sono le mani di un poeta, quelle mani che raccontano tutto senza dire nulla, quelle mani che in due soli versi hanno saputo raccontare che cosa vuol dire vivere: «M’illumino / d’immenso» [Mattina, 1917].
Questo incontro segna l’inizio di una storia d’amore che ha il sapore di altri tempi. Bruna e Ungà, come si faceva chiamare, si scrissero centinaia e centinaia di lettere da una parte all’altra dell’oceano per circa due anni e mezzo. La corrispondenza fu interrotta da pochi momenti in cui i due amanti si incontrarono in Italia o in Brasile.
Ungà in queste lettere si “spoglia” del suo essere poeta e racconta i viaggi, gli incontri, le amicizie e le inimicizie, descrive con i suoi occhi la Storia del Novecento, mette in mostra le sue ansie e le sue paure, ma insegna anche ad amare, a non smettere mai di essere felici e di guardare verso il futuro.
Un giorno a Villa Borghese, davanti alla statua di “Paolina Borghese Bonaparte come Venere vincitrice” «lui mi prese la mano e me la fece accarezzare tutta. […] E io, al tocco di quella statua, è come se avessi incorporato il proprio Canova». Bruna mi guarda. I suoi piccoli occhi azzurri cercano di trattenere le lacrime. Parla di un uomo che le ha insegnato tutto: l’arte, la poesia, la musica.
Mi racconta che amavano la musica di bossa nova e che forse gli avrebbe potuto dedicare “Garota de Ipanema” (La ragazza di Ipanema) di Vinicius de Moraes e Antonio Carlos Jobim.
Le sceglieva i profumi migliori, stava molte ore a provarli e a capire quale si adattasse meglio alla sua pelle. Tutto con lui era poesia. Mi guarda ancora. «Puoi immaginare cosa facesse dell’amore e cosa fosse per lui l’Amore».
Dopo due anni e mezzo e centinaia di lettere d’amore però la loro relazione finì nel silenzio. Non ho il coraggio di chiederle perché e come sia successo. Non sempre è necessario conoscere tutto. Le poesie sono belle proprio perché non del tutto comprensibili. Bruna e Ungà erano come poesia e la loro forza forse stava anche nell’essere due “amanti incomprensibili”.
Fuori dalla sala mi aspetta Milly Coda, da circa quarant’anni amica di Bruna, pittrice di Genova.
Un pomeriggio, dopo alcuni anni dalla fine della storia d’amore con Ungaretti, Bruna chiamò Milly. Aprì la cassapanca e prese alcune scatole. Dentro c’erano centinaia di lettere. Le aveva conservate tutte. Le lasciò il tempo di guardarle attentamente e poi le disse che avrebbe voluto bruciarle. Voleva dimenticarsi di tutto, voleva tornare alla normalità.
Milly mi sorride e mi dice che fortunatamente riuscì a «farla ragionare».
Anni dopo, con la giovane italianista di San Paolo Francesca Cricelli, Bruna iniziò il lungo lavoro di trascrizione delle lettere. Versò molte lacrime mentre leggeva, rileggeva e trascriveva quei testi che il suo Ungà le aveva dedicato. Con la maturità di cinquant’anni dopo, capì di essere stata anche un mezzo che il poeta utilizzò per trasmettere un messaggio a tutti gli uomini.
Il 12 settembre, la raccolta delle lettere che Ungaretti le aveva dedicato è stata infine pubblicata per Mondadori, col titolo di «Lettere a Bruna».
Bruna si allontana e va verso la sua borsa. Mi porge una busta. Dentro trovo dei fogli piegati: sono le copie della traduzione che aveva fatto con Ungaretti del proemio dell’Odissea. Mi dice di leggere i classici come Omero e mi ringrazia di non averle fatto domande difficili. Mi dà un bacio e mi abbraccia.
Mi guarda un’ultima volta con i suoi occhi azzurri che non hanno saputo trattenere le lacrime. Mi guarda fisso e con dolcezza afferma che se potesse rispondere ancora un’ultima volta al suo poeta, gli direbbe di nuovo e per sempre: “ti amo”.